Non esisteva più nei tramonti e lungo i viali delle città, nei giorni e nelle notti, nelle stories sui social o in tv se non nella tv del dolore. Non esisteva fino a quando non hanno sfilato le bare sui mezzi militari a Bergamo, mentre si moriva in ospedale per un mistero, uccisi dal proprio stesso alito, nel respiro, mentre a figli e coniugi e parenti e amici era negato perfino l’ultimo saluto. Secondo la Johns Hopkins University a oggi sono oltre cinque milioni e 372mila le morti causate dalle complicanze del contagio da covid-19 nel mondo che tutto in una volta ha dovuto fare i conti con un pensiero spesso e volentieri sottaciuto, sotterraneo, occultato: che ha riscoperto il “perturbante”.
Perché come scrive Ines Testoni “dal secondo dopoguerra, l’Occidente ha costruito progressivamente uno scenario capace di eclissare la presenza della morte come evento concreto, per allestirne la rappresentazione all’interno di un immaginario funzionale alla rimozione collettiva, celando così profili realistici della finitudine”. È quello che leggiamo nel suo Il Grande Libro della Morte, edito da Il Saggiatore, una specie di mappatura della morte, un’autopsia della fine sempre in equilibrio sul limes che è un “confine tra il reale e l’irreale”. Testoni, professoressa di Psicologia sociale e direttrice del master in Death Studies & the End of Life all’Università di Padova parte dagli inizi, dalle serate intorno al camino in Garfagnana ad ascoltare le storie della nonna: il suo primo approccio con i Death Studies – o tanatologia, termine coniato da Solomon Anschel nel 1795 – e quindi con quello che indaga e affronta e prova capire tramite un punto di vista fenomenologico.
Ha scritto una mappatura della morte in quanto “è sempre più chiaro che i destini della vita biologica e delle sue metamorfosi oggi non sono più totalmente determinati dalla natura, quanto piuttosto dalla scienza e dalla tecnica, e questo crea molta confusione rispetto al riconoscimento dei limiti, gli stessi che un tempo sembravano sacri e che oggi al contrario sono interpretati come frutto di negligenza”. E a queste domande Testoni fornisce nomi e definizioni, ricostruzioni e ipotesi, versioni e fili logici per correre lungo il filo teso di questo limes.
Il saggio anche sguscia, svicola, svolta fuori testo per colpire poi al centro: che parlando della morte non si può che parlare di tutto. Di questo senso della vita che forse un senso non ce l’ha, del lutto come “seconda morte” e come “trionfazione della morte” e “crisi della presenza”, di oscenità e sciamanesimo e cannibalismo, la ierofania e la natura come madre e inevitabilmente matrigna, il cibo e l’impurità il darwinismo, il postumano del cyborg e i sepolcri di Foscolo, i simboli primitivi del teschio e del grido, i gender studies e il mito di Sisifo, memento mori e ars moriendi con l’immagine del Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich a sorvolare su tutta l’opera tra le uniche due certezze dell’unico viaggio certo: la nascita e la morte.
È un tabù, questa fine, my only friend the end come cantava Jim Morrison. Soprattutto in Occidente, soprattutto per quanto riguarda il suicidio – la discussione sull’eutanasia è arrivata a inizio dicembre alla Camera dei deputati, il discorso è tuttavia parecchio più ampio: come “imposizione” o “ultima apertura per uscire da un labirinto all’interno del quale si crede di non riuscire più a orientarsi”. Ed è un libro colto, coltissimo, che trova in Freud, Giordano Bruno, Emanuele Severino ed Ernerso De Martino, Nietszche, Socrate e Platone e non solo riferimenti costanti. Da tenere sempre lì a fianco, almeno in libreria, memento anche per certe posizioni snob che aiutano a darsi un tono più che a comprendere. “Sorridiamo – scrive Testoni esponendo e spiegando riti funebri e di passaggio – quando sentiamo parlare di questi usi, perché dichiariamo di non credere a ciò che invece inconsciamente crediamo. Eppure, proprio su simili leggende, per quanto più complesse, sono state coltivate usanze diffuse e sono state sviluppate mode, stereotipi, pregiudizi, convinzioni comuni”. Serve a volte un “Cigno Nero” come la pandemia a “mostrare come tutto ciò che viene considerato familiare e prevedibile sia sostanzialmente frutto di una distorsione psicologica che permette alle persone di vivere credendo di capire che cosa sta accadendo, e quindi di nutrire la convinzione di poter controllare gli eventi”.
