“Il grido di Giobbe”, una parabola che ci insegna ad accettare il male

Vent’anni fa, nel corso di un’intervista in un albergo romano, chiesi a James Hillman, famoso psicanalista di matrice junghiana, cosa ne pensasse di una celebre affermazione di Vladimir Nabokov, compresa in Intransigenze (Adelphi), riguardo alla natura della sua professione: «Se gli ingenui e il volgo continuano a credere che tutti i malanni mentali si possano guarire con un’applicazione di vecchi miti greci alle parti intime, facciano pure. La cosa non mi tocca».

Era una battuta provocatoria, una di quelle uscite sarcastiche, d’implacabile ironia stilistica, che il grande scrittore russo di lingua inglese non sapeva trattenere, specie se i suoi interlocutori avevano la debolezza, o la calcolata malizia, di alzargli la palla in modo tale che lui potesse schiacciarla oltre la rete. Tuttavia Hillman, che sarebbe scomparso in una clinica del Connecticut dieci anni dopo, senza scomporsi, mi guardò diritto negli occhi e disse: «Secondo me Lolita resta comunque uno dei grandi libri psicologici dei nostri tempi». Come non essere d’accordo? Tuttavia la posizione deliberatamente antifreudiana di Nabokov restava intatta, non scalfita nella sua invulnerabilità: era l’algida, eppure scanzonata, torretta del Novecento. Riassumibile così: No li me tangere. Eccomi qui, nel mio lussuoso albergo svizzero, il Montreux Palace, a distanza di sicurezza da tutte le vostre illusioni palingenetiche

. Volete cambiare l’uomo? Non vi sono bastate Auschwitz, Sobibor, Treblinka e gli arcipelaghi Gulag? Buona fortuna! Io scrivo, gioco a tennis e colleziono farfalle. Ho ripensato a queste connessioni dopo aver letto Il grido di Giobbe (Einaudi, pp. 96, 15 euro), l’ultima riflessione biblica di Massimo Recalcati, preceduta da La notte del Getsemani (2019) e Il gesto di Caino (2020). L’obiettivo è quello di rintracciare l’eredità più profonda del pensiero psicanalitico, sostando qualche ora sulle piattaforme verbali elaborate dalla tradizione, sempre sospese nel vuoto, scoperto e verbalizzato una volta per tutte dal Qoèlet, che consentono agli esseri della nostra specie di non impazzire. Perché siamo venuti al mondo? Quale è il compito da eseguire? Come dobbiamo vivere? «Giobbe», scrive l’autore nell’introduzione, «diversamente dall’uomo greco, non si limita a constatare l’assurdità del dolore, la sua originaria insensatezza e crudeltà, ma insiste nel rivolgersi a Dio, esige di incontrarlo ‘faccia a faccia’, di vederlo di persona».

Qui, in effetti, sta tutto l’incommensurabile scarto fra Atene e Gerusalemme. Satana può scommettere sull’innocente colpito dal male proprio perché quest’ultimo ha dichiarato la sua fede, altrimenti non avrebbe campo di azione. Colpisce in Recalcati l’intensità reiterata con cui esegue la fonte, colonna fondante dell’Antico Testamento, specie quando allude all’assenza del padre, verificabile sin dall’etimologia di Giobbe, che lascia da solo il figlio di fronte al male indecifrabile, come se volesse spingerlo a una richiesta radicale di confronto psicofisico con la propria stessa mancata soluzione linguistica, resa plasticamente evidente nel grido: «il dolore infatti è l’esperienza della caduta della parola», un luogo aspro dove la forza della domanda (Dio, perché mi fai questo?) è chiamata a trovare in sé l’unica, possibile risposta. Nell’ottica di tale lettura bisogna superare lo schema pedagogico oggi trionfante: io ti chiedo, tu mi dai. È necessario trovare, dentro ma anche fuori di sé, la convinzione per dire: io ti do senza pretendere ricambio, uscendo così dalla schiavitù del risultato. Per farlo, dobbiamo operare un atto di volizione individuale. «Con Giobbe il testo biblico deve abbandonare le rassicurazioni della giustizia retributiva della quale Noè è un simbolo, per inoltrarsi in una profondità conturbante che verrà ripresa solo dalla predicazione e dalla testimonianza di Gesù».

Conta quindi accettare il nostro limite, compreso il dubbio estremo sulla fede come “salto nel vuoto”, nella destituzione delle “opere dell’Ego”. Quale sarebbe lo spazio di manovra in cui muoverci? Da una parte abbiamo Sartre: «La libertà è fare qualcosa di quello che è stato fatto di noi». Dall’altra Camus: «Bisogna essere colui che resta!». Non abbandonare chi è consumato dal dolore. Il tentativo di mettere insieme queste due conclusioni, una intellettuale, l’altra operativa, non è solo apprezzabile. Appare anche commovente. Torna alla memoria, fra i tanti personaggi della letteratura moderna – primo fra tutti il Giobbe di Joseph Roth e l’ultimo di Philip Roth in Nemesi, citato da Recalcati – quello immaginato da Bernard Malamud in uno dei suoi racconti più belli: Angelo Levine. Manischevitz, sarto cinquantenne, è una specie di Giobbe a Manhattan. Gliene accadono di tutti i colori: va a fuoco il laboratorio, un figlio muore in guerra, un’altra figlia scompare, sua moglie Fanny è colpita dall’arteriosclerosi, a lui il mal di schiena impedisce di cucire. All’improvviso si presenta Angelo Levine, senza farsi annunciare: siede in soggiorno e legge il giornale. Nero come la pece, sostiene di essere ebreo. Improponibile cherubino, assomiglia a un assistente sociale del Welfare Department.

Come dargli affidamento? Manischevitz rinuncia al suo aiuto, ma dopo pochi giorni il mondo si sgretola. Allora l’uomo, disperato, va in cerca dell’incredibile stregone: quando lo vede ballare in un cabaret di Harlem, mezzo ubriaco, aggrappato alle natiche di Bella, non ce la fa a dichiararsi, deve recedere. Insulta Dio e, al letto della moglie agonizzante, si dispera. Poi torna sui suoi passi. Entra in quella specie di lupanare dove Levine trascorre i pomeriggi e si prostra davanti a lui. Che, alla fine, risolve tutto, prima di riprendere il volo sotto gli occhi allibiti del sarto.
Beati quelli che troveranno un angelo a salvarli! Tutti gli altri dovranno accontentarsi, e non sarebbe poco, di “liberare”, come scrive Recalcati sulla scia di Giobbe, «in modo definitivo il dolore dal segno morale della colpa».