La decisione storica del governo libanese di procedere, entro la fine del 2025, al disarmo totale di Hezbollah sta spingendo il Paese verso un abisso pericolosamente familiare: la guerra civile. Dopo decenni in cui la milizia sciita ha mantenuto un arsenale parallelo a quello dell’esercito regolare, godendo dell’appoggio militare e politico dell’Iran, le autorità di Beirut, sostenute da Stati Uniti, Israele e da gran parte della comunità internazionale, hanno finalmente deciso di riaffermare il principio della sovranità esclusiva dello Stato sull’uso della forza.
Ma Hezbollah non ci sta. Il nuovo leader, Naim Qassem, ha lanciato un messaggio chiarissimo: le armi del “Partito di Dio” non si toccano. Ha definito il piano di disarmo un “diktat americano” ed esortato il governo a ritirarlo immediatamente. Nei giorni scorsi, migliaia di sostenitori hanno sfilato a Beirut con slogan bellicosi e inviti neppure troppo velati alla rivolta armata. Sui social circolano appelli alla resistenza e paragoni tra le figure istituzionali libanesi e Yazid, il califfo omayyade detestato dagli sciiti per la morte dell’Imam Husayn, nipote di Maometto, a Karbala, nel 680 d.C. Un segnale inequivocabile che Hezbollah sta preparando la propria base a un possibile scontro. Il rischio di una nuova guerra civile è tutt’altro che remoto. La memoria del 1975-1990 è ancora scolpita nei cuori e nelle macerie di molte città libanesi. Ma il contesto attuale è ancor più instabile: l’esercito libanese, pur formalmente incaricato del disarmo, è fragile e attraversato da fratture. E alle spalle di Hezbollah c’è l’Iran, che da anni ne sostiene armamento, addestramento e finanze, con investimenti per miliardi.
Tuttavia, proprio da Teheran arrivano segnali di frattura. All’interno del regime si contrappongono due linee: da un lato gli oltranzisti legati ai Pasdaran e al coordinamento della Forza Quds, decisi a sostenere Hezbollah a ogni costo; dall’altro il campo riformista, di cui fa parte anche il presidente Masoud Pezeshkian, sempre più critico verso un coinvolgimento diretto in una nuova guerra in Libano. Alcuni esponenti moderati, tra cui ex diplomatici e studiosi religiosi, chiedono apertamente che Teheran si faccia da parte, lasciando che siano i libanesi a decidere del proprio destino. In questo quadro, la recente visita a Beirut del segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale, Ali Larijani, è stata letta da quell’area come un’ingerenza pericolosa.
Nel frattempo, anche Israele osserva con crescente preoccupazione. Gerusalemme ha già fatto sapere che non permetterà a Hezbollah di rafforzarsi ulteriormente né di destabilizzare il confine settentrionale. Se il partito sciita dovesse opporsi con le armi al disarmo, è probabile una nuova offensiva israeliana su vasta scala nel sud del Libano, simile per intensità a quella del 2006 ma con obiettivi più sistematici. La proposta israeliana di istituire una zona economica smilitarizzata lungo il confine meridionale, accolta con interesse da interlocutori libanesi e statunitensi, mira a congelare l’escalation prima che precipiti. Hezbollah, però, ha risposto con minacce, non con aperture.
Il quadro è estremamente delicato: Hezbollah si sente messo all’angolo e minaccia rappresaglie; il governo libanese tenta un atto di sovranità potenzialmente storico; Stati Uniti e Israele spingono per un riequilibrio nel Levante; e l’Iran è diviso tra chi vuole rilanciare l’“Asse della Resistenza” e chi invoca prudenza. Una speranza viene anche da un piano di investimenti, ideato e finanziato dal Qatar e dall’Arabia Saudita, che si propone di creare posti di lavoro e opportunità per ex membri e sostenitori di Hezbollah disponibili a reinserirsi nella vita civile, favorendo una transizione pacifica e, auspicabilmente, allettante per i diretti interessati.
Una cosa è certa: se Hezbollah non cederà le armi, lo scontro sarà inevitabile. E questa volta non si tratterà solo di un conflitto libanese, ma di una miccia capace di incendiare l’intero Medio Oriente.
