Da mesi sulle colonne di questo giornale evidenziamo il processo di indebolimento dell’ordine mondiale di stampo liberale. Ora anche il New York Times, con Tom Friedman, si chiede come definire la fase in cui viviamo. La sua proposta – “Polycene”, opposta al “Monocene”, ossia un’era talmente densa di shock geopolitici, tecnologici e finanziari da rendere impossibile una lettura lineare – coglie l’essenza di un mondo che cambia più in fretta di quanto i modelli economici riescano a catturare.
I mercati intuiscono il cambio di regime. In Giappone, da sempre laboratori delle dinamiche finanziarie che interesseranno in un secondo mondo il resto dei mercati, i rendimenti dei JGB a 20 anni toccano i massimi dal 1999, costringendo la premier Takaichi e il governatore Ueda a riflettere su come evitare un nuovo shock sullo yen. Il debito privato, soprattutto contratto dalle big dell’IA, lancia segnali di tensione, mentre proseguono mega-operazioni di vendor financing che ricordano le bolle pre-2008. Sul fronte geopolitico, il quadro è altrettanto instabile. La portaerei USS Ford entra nei Caraibi, con implicazioni per Venezuela e per l’intero Sud America. In Asia aumentano le frizioni tra Cina e Giappone attorno a Taiwan.
In Europa, Kyiv vuole acquistare fino a 100 Rafale, mentre il progetto franco-tedesco del caccia comune rischia di saltare; Bruxelles avverte che il prestito da 140 miliardi di euro all’Ucraina utilizzando come collaterale le riserve russe sotto sequestro potrebbe avere “effetti collaterali”. La Polonia parla di “sabotaggio senza precedenti” dopo un’esplosione ferroviaria, evidenziando il rischio che insiste sulle infrastrutture critiche del vecchio continente nell’attuale contesto di guerra ibrida. Sul fronte delle materie prime, la Commissione pone l’accento sulla necessità di un’azione di stoccaggio ma senza mettere sul tavolo un euro.
A ciò si aggiungono supply chain sempre più sotto stress: GM e Tesla annunciano che negli Usa non useranno componenti cinesi; la Germania accelera sull’esclusione di Huawei anche se l’industria teutonica non intende tagliare il cordone ombelicale con Pechino. Intanto l’accordo Usa–Cina sulle terre rare, tanto sbandierato dai media, ancora non arriva. La questione sociale ribolle. L’accessibilità della casa crolla sia in Europa che negli Usa, dove l’età media dell’acquirente è salita a 59 anni. Il timore di licenziamenti legati all’AI cresce. Conseguentemente, il populismo cresce: a New York vince Mamdani; nel Regno Unito, Reform propone tagli drastici a welfare e aiuti esteri; il consenso di Afd continua a crescere in Germania, Bardella viene oramai chiamato in patria il nuovo Chirac, mentre in Asia e America Latina aumentano le proteste della Generazione Z.
Di fronte a questo quadro, il modello di una banca centrale indipendente sembra uno schema appartenente oramai al passato. Dopo pandemie, guerra e inflazione, Tesoro e Fed negli Usa operano di fatto congiuntamente. Se il neoliberalismo degli anni ’90 e il QE degli anni 2000 rispondevano ai grandi shock del loro tempo, oggi si apre una fase nuova: monetario, fiscale, industriale, commerciale e geopolitico si fondono. È la logica dei nascenti “Mar-a-Lago Accord” evocati dal capo economista della Casa Bianca, Stephen Miran: coordinamento integrale, non più compartimenti stagni. La scelta del prossimo presidente della Fed – che Trump vuole definire entro Natale – sarà quindi decisiva: nessuno si aspetta un tecnocrate isolato dal mondo reale. Il focus passerà poi alla corsa per la nomina del prossimo presidente della Bce prevista nel 2027, con lo spagnolo de Cos e il tedesco Nagel come possibili candidati. Il punto è chi guiderà le banche centrali in un mondo radicalmente diverso da quello per cui sono stati formati. Un mondo in cui inflazione, energia, sicurezza, AI, catene del valore e demografia non possono più essere separate. E in cui la strategia economica non sarà più un esercizio tecnico, ma un’estensione della politica di potenza.
