Il piano di pace di Donald Trump poggia su tre gambe: il tempo, la dimensione regionale e quella globale. Per quanto riguarda il primo fattore, ciascuno dei tre protagonisti, Stati Uniti, Israele e Hamas, ha un calendario da rispettare.
Il presidente Usa ha bisogno di chiudere la partita almeno qualche giorno prima del 10 ottobre, data di assegnazione del Premio Nobel per la Pace. Riconoscimento con cui vuole eguagliare Obama. Tuttavia, le festività ebraiche in corso portano Netanyahu a prendere tempo. Dopo Rosh hashana, stasera inizierà Kippur, poi ci sarà Sukkot. Uno stand by fino a metà ottobre, che fa gioco a Bibi Netanyahu, il cui fine è tenere in vita il governo, portare a casa gli ostaggi e vincere la guerra. Tre step impegnativi, che richiedono stabilità. Le eventuali fuoriuscite di Smotrich e Ben Gvir potrebbero essere colmate da una coalizione alternativa. Magari convincendo l’ex ministro della difesa Ganz a tornare in campo. «Questi però sono più esercizi di stile, che scenari concreti», ci spiega una fonte israeliana. «Smotrich sta parlando alla base. È ancora da vedere se la sua sia una reale opposizione», dice ancora.
Del resto, la palla è nel campo di Hamas. E qui si entra nelle cose lasciate fluide dallo stesso Trump. L’accordo prevede la riconsegna degli ostaggi entro 72 ore. Ma non è specificato da quando partirebbe il timer. Solo ieri, il presidente Usa ha parlato di tre o quattro giorni per accettare. L’imprecisione potrebbe essere spiegata dal fatto che i terroristi di Gaza sono impegnati nel contro summit di Doha con i loro alleati qatarini e turchi. Le previsioni sono favorevoli. Poi si passa alle criticità regionali. «Quello di Trump è l’accordo proposto da Biden al tempo, ma boicottato al tempo da Netanyahu, ora aggiornato di qualche elemento». Ci dicono, sottolineando l’ingresso di Tony Blair, unica presenza europea e con un curriculum di alto livello nel processo di pace, e il coinvolgimento di governi non solo mediorientali. Il presidente Usa però si è immaginato un piano millenario. Questo vuol dire chiudere tutti i contenziosi. Per sempre. Israele vuole il rilascio degli ostaggi e, sul lungo periodo, il riconoscimento definito della sua esistenza. Da tutta la comunità internazionale.
«Hamas vuole la garanzia che, ad accordo raggiunto, i suoi non vengano mai più toccati». Aggiungono le nostre fonti. Washington e Doha si stanno occupando di questo piano di protezione degli ex terroristi. Da qui la telefonata durante il vertice Trump-Netanyahu. «L’attacco israeliano di due settimane fa ha trasformato il Qatar da nemico giurato e finanziatore del progrom del 7 ottobre a vincitore, ma soprattutto capo cordata della ricostruzione di Gaza». Operazione tipica trumpiana. La politica internazionale ha senso se atterra su un progetto di business. Meglio se immobiliare. Altrimenti non è interessante. In questo ragionamento, Enrico Molinaro, Presidente di Prospettive Mediterranee, ci suggerisce una variabile indipendente: «Tra i 250 ergastolani palestinesi che Israele dovrebbe rilasciare in cambio degli ostaggi, c’è Marwan Barghuthi».
L’ex comandante di Fatah è in carcere dal 2002. Da allora, è opinione comune che, una volta in libertà, sua sarebbe la leadership della confusa matassa di partiti, movimenti e milizie che costituiscono la causa palestinese. Una leadership ai danni sia di Abu Mazen sia di Hamas. E qui viene da chiedersi se Netanyahu sia d’accordo. Nonostante quanto da lui detto, tra i 20 punti si parla di autodeterminazione dello Stato palestinese. Barghuthi, o chi per lui, quale modello applicherebbe per costruirlo? Quello corrotto di Ramallah, o quello sanguinario di Hamas? C’è anche l’opzione democratica. In tal caso, i palestinesi dovrebbero bussare alla porta dei loro ex nemici e farsi spiegare come si fa.
Infine, la dimensione globale. Arabia Saudita, Iran, Pakistan e Indonesia sono stati tutti nominati da Trump. Certo, sono Paesi musulmani e, alcuni, con le mani che affondano nelle radici del conflitto israelo-palestinese. Ma non solo. «Sono tutti membri a pieno titolo, oppure candidati ai Brics», aggiunge Molinaro. «Oggi è in corso la ridefinizione delle relazioni internazionali. Dal mondo glocalista e transfrontaliero, com’è nel sogno dell’Europa unita, si sta tornando al sistema in cui a prevalere sono i governi nazionali». È un sistema in cui Russia, Cina, Brasile e, ovviamente, tutti i Paesi emergenti di fede islamica si trovano benissimo. Tant’è che Peskov, dal Cremlino, ha dato l’ok al piano Gaza. Mosca ha nostalgia del Medio Oriente. Inoltre, la bozza Usa potrebbe tornarle comoda per respingere le ingerenze di organismi quali Onu e Ue in quei contenziosi che solo gli Stati-nazione hanno saputo risolvere da sempre. Westfalia insegna. Assurdo: il nuovo ordine mondiale sembra dipendere da un gruppo terroristico a cui è data la strada per scappare dalle sue colpe.
