Il papà di Irpin, attraverso la Russia per l’ultimo saluto alla sua famiglia: “Combatto per vendicarli e per non fuggire più”

Gli hanno detto che vicino al ponte di Irpin, dove i russi hanno sterminato la sua famiglia, non si spara più come prima. Serhiy Perebynis, 42 anni, programmatore, ha il cuore ancora pieno di dolore e rabbia dopo aver dato sepoltura alla moglie Tetiana, 43 anni, Mykyta, 18, e Alisa 9 anni, morti uccisi da un mortaio russo mentre cercavano di scappare da Irpin e trovare altrove la salvezza. Quella foto dei cadaveri di mamma e figli e del volontario che li stava aiutando, coperti da tovaglie a fiori, con accanto il trolley e la gabbietta del cane, ha fatto il giro del mondo, diventando il simbolo della tragedia della guerra.

Serhiy, ha saputo da Twitter che la sua famiglia era stata colpita. Lui si trovava a Donetsk per stare accanto a sua anziana mamma che aveva contratto il Covid. Subito si è messo in viaggio verso Irpin ma per farlo ha dovuto attraversare la Russia nemica, la patria di chi ha sterminato la sua famiglia. Il racconto che fa, intervistato da Repubblica, di quel viaggio è straziante. A ogni posto di blocco russo “spiegavo che per colpa di un mortaio del loro esercito avevo perso la mia famiglia, ho fatto vedere la foto dei corpi vicino al ponte, li pregavo di farmi passare… non mostravano alcuna emozione, ero uno qualunque. Anzi peggio, ero un ucraino in Russia”.

Serhiy e Tetiana avevano organizzato la fuga nei dettagli e seguiva i suoi spostamenti con la posizione di Google. “C’era poco campo, la T di Tetiena, sullo schermo, appariva e spariva. È ricomparsa sull’Ospedale N.7. Non capivo. Poi ho letto un tweet e ho visto quella foto. Ho urlato con tutto il fiato che avevo in gola. Da lì in poi, un unico pensiero: vederli un’ultima volta, dargli una sepoltura degna. Però Donetsk è nel Donbass filorusso, nessuno può entrare in Ucraina ora che i check-point sono ridotti in polvere”.

Così si è messo in macchina diretto a Rostov. Le guardie lo hanno interrogato e gli hanno preso le impronte digitali. A tutti doveva spiegare che la sua famiglia era stata uccisa e stava cercando di raggiungerla per l’ultimo saluto. Mostrava loro la dannata foto. La risposta era solo grande freddezza. “Mi hanno tenuto lì per 5 ore, mormorando – ha raccontato a repubblica – Alla fine mi hanno fatto attraversare fino a un altro check-point. C’erano gli agenti dell’Mgb (l’intelligence di Donetsk), mi hanno strattonato fuori dall’auto, volevano arrestarmi. Ho mostrato loro i polsi, ‘arrestatemi, tanto non ho più niente da perdere’. Anche loro volevano sapere come è morta la mia Tetiana. ‘Non lo indovinate?’, li ho sfidati. Ma loro gelidi e scettici”.

Poi in autobus fino a Mosca. Ancora domande e controlli da parte dei militari russi. Poi da Mosca a Kaliningrad in taxi fino alla Polonia. “Gli unici a provare pietà per me erano i tassisti russi, confessavano che era una guerra che non gli apparteneva. Da lì sono andato a Leopoli e poi Kiev”. Un viaggio di 4 giorni senza mai dormire e con il dolore più grande nel cuore. All’inizio sembrava che la moglie potesse sopravvivere, poi la notizia che non c’era più nulla da fare.

“Adesso mi hanno chiesto di entrare nelle Forze di difesa territoriali, per tornare a Irpin a sparare ai russi”. A spingerlo ad accettare non c’è solo il desiderio di vendicare la sua famiglia ma anche quella di “proteggere la mia patria. Sono già scappato dal Donbass nel 2014, non voglio scappare più. Non saremo noi ad andarcene, questa volta”. Una volta raggiunto l’obitorio dove c’erano i corpi della sua famiglia ha dovuto aspettare la lunga fila. “Ho chiesto ai volontari di portarmi da mia moglie per sbloccare il suo iPhone. Contiene le foto della mia famiglia, le volevo. Ho preso il pollice freddo di Tetiana e l’ho appoggiato sullo schermo, però non si è sbloccato, funziona solo con le persone vive. Dopo un po’ mi hanno consegnato tre bare. Ho vestito Mykyta e Alisa, ho vestito la mia Tetiana, li ho sepolti nel cimitero di un villaggio a sud della capitale”.

C’è tanto dolore nel cuore di Serhiy e anche il rimpianto di non essere stato lì con loro, di non averli potuti proteggere. “Se fossi stato lì non sarebbe accaduto, perché sono più riflessivo – ha detto – Non li ho potuti proteggere, questa è la verità. Ero a Donetsk, eravamo convinti che Putin avrebbe invaso solo il Donbass”. Il papà è tornato sul punto in cui la sua famiglia è stata uccisa, vicino al ponte. “Ho preso i trolley e la gabbietta di Benz. Della mia famiglia rimangono solo quelle due valige sporche di sangue”. Ora può solo riguardare dal cellulare le immagini felici dei suoi giorni con la sua famiglia che non c’è più. “Ogni mattina, per 22 anni, le ho detto che l’amavo (a Tetiana, ndr) – dice – Continuerò a farlo sulla sua tomba”.