Tre corpi stesi sulla strada coperti da tovaglie a fiori. Una mano insanguinata sbuca da un lato, da un altro la visiera di un cappellino. Nella distruzione resta in piedi solo il trasportino verde acido del cane e un trolley grigio, piccolo raccoglitore di ciò che rimane di tre vite sgominate dalle bombe russe a Irpin. È questa l’immagine tremenda della guerra, di quella famiglia che aveva provato a salvarsi, a fuggire e ce l’aveva quasi fatta. Ma un missile l’ha sbalzata a terra senza alcuna pietà. Quella foto ha fatto il giro del mondo diventando il simbolo fella ferocia dei quel conflitto.

Alisa di 9 anni e Miketa di 18, assieme alla mamma, Tatiana di 43 anni, stavano fuggendo da Irpin. Era la seconda volta che fuggivano: la prima nel 2014 quando lasciarono Donetsk per riparare a Irpin dopo l’invasione russa. “L’intero mondo deve sapere cosa sta accadendo qui”: lo afferma in una intervista al New York Times Serhiy Perebyinis, 43 anni, il marito della donna uccisa dal fuoco russo con i due figli e un volontario mentre tentava di fuggire da Kiev.

Il papà di Alisa e Mirketa ha raccontato la loro storia, di quella fuga programmata ma ritardata per stare vicino alla nonna malata di Alzheimer. Per giorni avevano aspettato nascosti nello scantinato dopo che la loro casa era stata colpita nei primi bombardamenti. Il marito si era molto dispiaciuto con la moglie di non poter partire con tutta la famiglia perchè si trovava in Ucraina orientale con la madre malata. “Le ho detto ‘perdonami di non potervi difendere, ho tentato di prendermi cura di una persona e questo significa che non posso proteggervi’. Lei mi ha risposto ‘non preoccupati, ce la farò”. Invece non ce l’ha fatta, è stata falcidiata con i figli e il volontario vicino ad un ponte, quello che si dice che gli ucraini abbiano fatto esplodere per impedire il passaggio dei carrarmati russi.

A raccontare il momento di quella drammatica esplosione è Andriy Dubchak, fotografo ucraino che collabora con il New York Times. È stato lui a riprendere per primo la scena, lui a fotografarla, lui a dare delle identità a quei corpi coperti dalle tovaglie a fiori. “Stavo camminando per le vie di Irpin, il villaggio attaccato dai russi a nord-ovest di Kiev. C’erano profughi che cercavano di scappare. Stavo facendo foto e film. Poco prima avevo sentito colpi di mitragliatrice, stavo muovendomi con altri colleghi. Ad un certo punto è stato chiaro che i russi da distanza avevano visto i profughi che tentavano di scappare. Gli sfollati erano centinaia: donne, bambini, anziani, malati erano aiutati dai volontari. Allora è arrivata la bomba”.

Lui si trovava per caso in quel punto e subito dopo l’esplosione ha sentito voci gridare aiuto. Appena il fumo e la polvere dell’esplosione si sono dissolti ha visto i corpi di mamma e fratelli distesi a terra, poco più avanti quello del volontario che li stava aiutando. “I due fratelli sono morti subito. Quando sono corso sul posto già non respiravano più. La mamma era incosciente, ma aveva il polso. È deceduta poco dopo”. “I russi giocano come il gatto col topo. A lunghi momenti di calma seguono secondi di fuoco”, raccontano altri testimoni.

Nel caos di quel momento nessuno riconosceva la famiglia e tutti cercavano di scappare. “Il fotografo voleva dare dei nomi a quei corpi insanguinati e così li ha fotografati e postato le foto sui social. “Dopo poche ore la madrina dei bambini mi ha contattato – ha raccontato il fotografo – Ho scoperto che sono una famiglia di Donetsk venuta a vivere a Irpin al tempo dell’invasione russa nel 2014. Lei ha chiesto come sono morti. Voleva sapere se avessero sofferto, piangeva molto. Tutti loro sono chiusi nei bunker. Tatiana e i due figli avrebbero dovuto raggiungerla. Ora la madrina dovrà recuperare i corpi che si trovano nell’obitorio centrale di Kiev. Tra loro faranno il funerale. A Kiev adesso risiede una comunità di sfollati da Donetsk”.

Ed è grazie ai social che anche il papà ha saputo che tutta la sua famiglia era stata sterminata. E ora dice che è importante che le loro morti siano state catturate in foto e video: “il mondo intero deve sapere cosa sta succedendo qui”.

Avatar photo

Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.