Un documento di 38 pagine, visionato dal Washington Post, delinea una strategia di ricostruzione di Gaza tanto ambiziosa quanto controversa. Si chiama Great Trust (Gaza Reconstitution, Economic Acceleration and Transformation Trust) e prevede un’amministrazione fiduciaria statunitense per almeno 10 anni, con l’obiettivo dichiarato di trasformare l’enclave non solo in un polo turistico di lusso ma soprattutto in un hub tecnologico avanzato. Il tutto finanziato da investitori sia pubblici che privati.
L’offerta di 5 mila dollari per lasciare Gaza
Il cuore del progetto è un vasto riassetto demografico e immobiliare. La popolazione verrebbe temporaneamente ricollocata: chi accetterà di lasciare Gaza “volontariamente” riceverà 5mila dollari in contanti, oltre all’equivalente di 4 anni di affitto e di un anno di generi alimentari. Chi resterà sarà trasferito in zone delimitate e sicure durante i lavori. Ai proprietari di terreni o abitazioni (anche se distrutte) verrebbe conferito un token digitale che rappresenta i diritti di riqualificazione: potrà finanziare una nuova vita altrove oppure essere riscattato, a ricostruzione avvenuta, per un appartamento in una delle 6–8 “città intelligenti” previste dentro Gaza.
La gestione
La governance proposta è un’amministrazione fiduciaria Usa. Israele manterrebbe per il primo anno ampi diritti di sicurezza, con un graduale passaggio a una “polizia locale” addestrata. Il periodo di transizione previsto è di 10 anni, finché non emergerà un’entità politica palestinese “riformata e deradicalizzata”. Nel documento non si parla di Stato palestinese; si prevede invece che il futuro soggetto di governo aderisca agli Accordi di Abramo.
Le opere simboliche
Il finanziamento poggia su “mega-progetti” a capitale pubblico/privato: fabbriche per veicoli elettrici, data center, resort balneari, grattacieli residenziali. Il piano promette rendimenti quasi quadruplicati su 100 miliardi di dollari in 10 anni. Fra le opere simboliche rientrano una tangenziale e una linea tramviaria perimetrali, ribattezzate “MBS Highway”, in omaggio al principe saudita Mohammed bin Salman; una dorsale autostradale Nord-Sud dedicata al presidente emiratino Mohammed bin Zayed; nuovo porto e aeroporto nel Sud, con collegamenti diretti verso Egitto, Arabia Saudita e Israele.
Gaza cantiere
Dal lato israeliano, Benjamin Netanyahu ha sempre fissato due precondizioni – disarmo di Hamas e rilascio di tutti gli ostaggi – ribadendo la necessità di un controllo di sicurezza israeliano e respingendo sia il ritorno dell’Autorità Palestinese a Gaza sia la statualità palestinese. Esponenti dell’ultradestra, come il ministro delle Finanze Smotrich, spingono addirittura per annessione e reinsediamento israeliano nella Striscia e per “emigrazione volontaria” dei gazawi. In parallelo, Trump ha coniugato la retorica di fine rapida della guerra con la sua indole imprenditoriale: “Gaza è un enorme cantiere di demolizione sul mare, clima perfetto: si possono fare cose magnifiche”.
Il governo
Il documento del Trust ignora volutamente la cornice classica “prima la politica, poi l’economia” e rovescia la sequenza: prima infrastrutture e capitali per ricostruire e, solo alla fine, un’entità di governo palestinese compatibile con l’architettura degli Accordi di Abramo. L’accettazione araba – che nei canali ufficiali continua a legare i finanziamenti a una prospettiva di Stato palestinese – viene data per costruibile “nel tempo”, anche grazie a una geografia che collocherebbe Gaza “all’incrocio” di un corridoio pro-americano (energia, minerali critici, logistica dell’India-Middle East-Europe Economic Corridor).
I nodi da sciogliere
Resta, sullo sfondo, il nodo politico-giuridico più sensibile: la “volontarietà” delle partenze e la titolarità dei suoli. Il token immobiliare, la promessa di appartamenti nuovi per chi rientra e di rendimenti stellari per gli investitori sono gli ingranaggi tecnici del meccanismo; ma la legittimità e l’accettazione sociale di un simile riassetto restano tutt’altro che scontate, prefigurando un decennio ad alta intensità politica in cui la sicurezza israeliana resterebbe il perno. Insomma, il Great Trust è la versione più strutturata (e appetibile per i capitali) della visione “Riviera di Gaza”. Promette profitti elevati, una governance commissariale a tempo e una ricostruzione guidata dal mercato. Ma sposta più avanti – e condiziona pesantemente – le risposte su sovranità, diritti politici e destino collettivo dei gazawi. Se diventerà davvero la traiettoria scelta, lo diranno i prossimi mesi di guerra, diplomazia e, soprattutto, di consenso (o rifiuto) da parte dei principali attori regionali e della popolazione palestinese.
