Il prezzo della libertà di Kiev (e della nostra), quanto siamo disposti a pagare?

A mural depicts volunteer soldiers of the 3rd assault brigade to honour the memory of their fellow soldier Serhiy Mashovets on an apartment building wall in Kyiv, Ukraine, Thursday, Feb. 1, 2024. Mashovets was killed in 2022 defending capital Kyiv from the Russian troops. He was an ecology activist who wanted to create a natural park in his home city district. (AP Photo/Efrem Lukatsky)

Una delle citazioni più famose di Sir Winston Churcill dipingeva la Russia come “un rebus avvolto in un mistero che sta dentro a un enigma”. Oggi, con buona pace del grande Primo Ministro britannico, l’adagio è invecchiato piuttosto male. Infatti, all’interno della drammatica continuità di politica interna ed internazionale russa rappresentata da Vladimir Putin, c’è un elemento che ha segnato una enorme rottura con il passato: l’uso sfrontato, diretto e senza ambiguità di una continuamente aggressiva retorica. Infatti, l’inquilino del Cremlino ha detto chiaramente al mondo che la caduta dell’Unione Sovietica è stata la più grande tragedia geopolitica del XX secolo, che il sistema di sicurezza dell’Europa va riportato indietro a prima del 1997 (anno dell’ingresso nella NATO dei Paesi dell’ex Patto di Varsavia) e che la Russia ha legittime pretese territoriali o di influenza su quelle che ritiene essere proprie regioni “storiche”.

Con riferimento alla guerra in Ucraina, Putin ha più volte dichiarato che le operazioni cesseranno soltanto quando saranno raggiunti gli obbiettivi (demilitarizzazione e denazificazione dell’Ucraina) e che il conflitto in atto non è solo contro Kiev, ma contro tutto il blocco euro-atlantico. Inoltre, a più riprese, lo “Zar” ed alcuni dei suoi più focosi cortigiani (leggasi Medvedev) hanno gonfiato il petto, affermando di non aver paura dell’Occidente e di non escludere l’uso di armi nucleari in caso di intervento diretto dei Paesi euro-atlantici nel conflitto. Di misterioso ed enigmatico, in tutte queste frasi, c’è ben poco. Putin vuole sconfiggere ed assoggettare l’Ucraina, che considera alla stregua di un “errore” storico-politico e non di uno Stato e di una Nazione, vuole ripristinare la vecchia gloria e la vecchia dimensione territoriale zarista e sovietica e, in sintesi, vuole modificare l’attuale ordine mondiale attraverso il ridimensionamento del ruolo statunitense e l’accelerazione del declino europeo. Non c’è alcuna apertura al dialogo in tale postura, non c’è nessuna inclinazione ad alcuna forma di negoziato o compromesso diverso da una resa chiamata con un altro nome.

Chi vede spiragli nel ghigno di Vladimir Vladimirovic è un osservatore spaventato, che preferisce interpretare la realtà a modo suo, oppure un utopico sognatore, che pensa che desiderare la pace o pronunciarne infinite volte il nome blocchi magicamente il conflitto, oppure, infine, una persona in malafede con agende e interessi rivolti verso la Piazza Rossa. Per nostra fortuna il popolo ucraino e il Presidente Zelensky riescono a vedere la realtà per quella che è spaventati ma non piegati dalle minacce russe, dai bombardamenti incessanti e dall’immenso tributo di sangue che sono stati chiamati a pagare. Per gli ucraini non esiste la stanchezza di guerra, ma solo la volontà di resistere fino all’ultimo uomo.

La stanchezza di guerra è un problema nostro. Un problema che si manifesta nei ritardi nell’elargizione di nuovi pacchetti di aiuti o nell’emissione di quelli già approvati. Un problema che ha l’aspetto di un comparto industriale che, a differenza di quello russo, non si è adattato alle esigenze del campo di battaglia e della sfida epocale che il continente europeo e, in generale tutto il mondo, fronteggia lungo la linea del fronte russo-ucraino. Al contrario delle Cancellerie europee e di parte dei decisori di Washington, la Russia (ed i suoi alleati più o meno espliciti) hanno capito qual è la posta in gioco e hanno agito di conseguenza. A noi, forse, non è, ancora del tutto chiaro o, peggio, non vogliamo accettarlo. Il nostro vecchio Continente forse ha compreso che la libertà e l’indipendenza dell’Ucraina sono la prima linea della sua libertà ed indipendenza, ma purtroppo non ha ancora quantificato qual è il prezzo di tale libertà a livello economico, politico, militare, sociale e psicologico.

Il Segretario della Difesa statunitense, Loyd Austin, ha espresso chiaramente il concetto: Se la Russia dovesse vincere in Ucraina, potrebbe non accontentarsi e puntare direttamente all’Europa. Quindi, se Kiev perde, la guerra tra Russia e NATO diventa molto di più di una eventualità. Rischi non nuovi quelli paventati da Austin e, peraltro, già esibiti dal Regno Unito, dalla Polonia e da una parte della Difesa tedesca. Per questo motivo, il supporto a Kiev diventa vitale ed impone un costo sempre più alto. Un costo, tuttavia, che divide l’Europa. C’è chi resta in silenzio e chi, al contrario, si prepara al peggio. Se il fronte ucraino dovesse collassare ed i russi iniziassero ad avanzare verso Kiev e Odessa, qualche Paese europeo (Polonia e Baltici in testa) potrebbero seriamente considerare la possibilità di inviare truppe a difesa dell’Ucraina. Tale invio si configurerebbe come un accordo individuale su base bilaterale, quindi fuori da qualsiasi vincolo europeo o NATO. Anche il Presidente francese Macron, a riguardo, non ha nascosto la concretezza di tale scenario.

Tuttavia, anche nella cornice di iniziative governative singole, e quindi esenti dalle clausole dell’articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord, farebbero precipitare l’Europa e gli Stati uniti in una terra incognita, dove i confini degli obblighi giuridici e delle conseguenti valutazioni politiche diventano più sfumati. Infatti, come potrebbe reagire la Russia all’invio di tali contingenti? Come si configurerebbe un attacco russo contro un obbiettivo, sul territorio nazionale o su quello ucraino, di un Paese coinvolto nell’invio di truppe a supporto di Kiev? Sono interrogativi che, al momento, non possono avere risposte univoche ma che aumentano, terribilmente, il rischio di escalation su livelli sconosciuti dai tempi della crisi di Cuba e della Seconda Guerra Mondiale. Tuttavia, la domanda principe resta sempre la prima: qual è il prezzo della libertà di Kiev e della nostra? E noi, quanto siamo disposti a pagare? Purtroppo, il tempo per darci e dare a Kiev (e a Putin) delle risposte resta sempre meno.

Andrea Margelletti – Presidente CeSI