Il “processo tipo” si ripete all’infinito anche senza il piatto di lenticchie: il riflesso protettivo del giudice che non condanna il “suo” pm

Ci vorrebbe sempre un giudice come Michele Morello, quello che dopo l’esplosione mediatica e poi la condanna al processo di primo grado ebbe coscienza, competenza e autonomia, e assolse “il camorrista” Enzo Tortora. Un giudice coraggioso? Un eroe? Sarebbe sufficiente uno alla vecchia maniera, uno di quelli che la sera tenevano la luce accesa a studiare e ad angosciarsi per il timore di dover condannare un innocente. Uno “strutturato”, lo definirebbe l’avvocato Gian Domenico Caiazza, che sa tenere insieme la fermezza del giudizio con la prudenza di non avventarsi su una sentenza se prima non ne ha letto le motivazioni.

Così una chiacchierata su quella decisione del tribunale di Napoli che ha condannato l’imprenditore Alfredo Romeo alla pena di sette anni e mezzo e il suo collaboratore architetto Ivan Russo a quattro anni e sei mesi di carcere, ha l’equilibrio positivo del pendolo. Perché il legale, che in dibattimento ha assistito l’architetto, non può esimersi dal considerare le accuse impostate dalla procura di Napoli come sconclusionate e illogiche, e le conclusioni come del tutto sganciate dagli esiti del dibattimento. Ma l’esperienza dell’avvocato unita a quella di una antica cronista giudiziaria conduce a ragionamenti e allarmi che tracimano da quell’aula del palazzo di giustizia di Napoli con il suo popolo fatto di toghe contrapposte e di imputati schiacciati nel mezzo.

Il “processo-tipo” infinito

Caiazza è stato difensore di Tortora, la vittima di un “processo-tipo”, che da allora si ripeterà all’infinito, come in un gioco di specchi. Lo stiamo vivendo in queste settimane con linchiesta-bis di Garlasco sull’assassinio di Chiara Poggi. I ricordi più antichi di quella vicenda sono rappresentati nella nostra memoria dal plastico della villetta di via Pascoli che Bruno Vespa mostrava agli italiani ogni lunedì sera. Il processo mediatico, quello che parte “alto”, con accuse pesanti, meglio se il clima odora di mafia. È stato così per Tortora, “il camorrista”, lo stesso per i tanti calabresi o siciliani finiti nei pentoloni di indagini “maxi”, poi finite evaporate. Anche l’inchiesta sull’imprenditore Romeo accusava di rapporti con la camorra. E quel giorno pareva avessero messo le manette a un Al Capone. Il gioco è facile, perché basta contestare il reato associativo, con tutti i suoi bis e ter, per avere subito corsie preferenziali nelle indagini, intercettazioni a gogo, e tutta l’opinione pubblica al proprio fianco.

Il riflesso protettivo dei giudici con in pm

Quale è il meccanismo, avvocato Caiazza? Per il legale di grande esperienza è quasi un ragionamento hegeliano. Così spiega il “processo-tipo” di grande impatto mediatico. Succede che, quanto più l’inchiesta espone una procura sul piano del pubblico consenso, e quanto più in seguito le ipotesi dell’accusa si rivelano inconsistenti, tanto più scatta il meccanismo del “riflesso protettivo” da parte del giudice nei confronti degli accusatori. È un po’ come se nell’inconscio di chi deve decidere scattasse il timore, nell’assolvere gli imputati innocenti, di avere di conseguenza condannato la procura. Un sentimento di vergogna, dunque, soprattutto quando, come fu nel caso di Tortora, e come si è ripetuto oggi, la magistratura associata era stata al fianco dei pubblici ministeri? L’avvocato Caiazza ne ha vissuti tanti, e tanti ne abbiamo raccontati. Sono processi pericolosissimi e molto difficili, questi che partono in modo roboante e poi man mano perdono pezzi per strada. Lo ricordiamo benissimo, caro avvocato, quel che successe a Napoli sette anni fa, quando l’imprenditore Romeo e l’architetto Russo furono arrestati, e si parlava di camorra, e l’inchiesta si fondava su decine e decine di intercettazioni ambientali, con le “cimici” messe addirittura sull’aereo, e poi migliaia di quelle captazioni rese pubbliche dai soliti quotidiani nella solita maniera fuorilegge per cui non sarà mai inquisito nessuno.

Certo, non è capitato solo in questo caso e in questa inchiesta, però non è male ricordare di quell’indagato in una delle inchieste iper-mediatiche condotte dall’attuale procuratore di Napoli Nicola Gratteri, che dovette insieme ai suoi legali insistere a lungo per avere una perizia fonica, dal momento che quel tal Giuseppe, interlocutore di un uomo della ‘ndrangheta, non era lui. E, tornando al caso di Alfredo Romeo, non si pretende la conoscenza della lingua inglese da parte degli uomini che intercettano, ma se non si capisce che cosa vuol dire, in una società che si occupa di pulizia, “tu sei il responsabile cleaning dell’azienda”, si chiede a qualcuno che lo sappia. Ci si informa, non si dà voce alla malizia inquisitoria. Quella che vede ovunque mafia. Non si trascrive “tu sei il responsabile crimine dell’azienda”. Perché deve essere chiaro che se il capo è un camorrista, avrà sicuramente al proprio servizio l’addetto al crimine. Questa è la tesi. Ma succede invece che poi, con l’antitesi e la sintesi, mattoncino dopo mattoncino, la costruzione inizia a sgretolarsi. Ed essendo un castello di carta, ci si sarebbe aspettati la classica folata di vento a portarsi via tutto. Invece no. Perché nel “processo-tipo” c’è sempre la montagna da scalare. La montagna di quell’accusa che è partita in modo così ingombrante da non poter essere rimossa d’un colpo. Così ci si accontenta anche di giocare in piccolo, pur di non rischiare di abbattere una montagna intera.

Woodcock e la massima sul “pubblico ufficiale”

Addirittura nell’aula il pm Jhon Woodcock, forse immemore di vecchie vicende che si chiamarono “Savoiagate”, “Vallettopoli”, “Loggia P4”, “Cpl Concordia”, e anche “Consip”, una vera valanga di archiviazioni e assoluzioni, si permette il lusso di spararla grossa. Mentre si discetta di piantine attorcigliate date in dono, sconti sulla spa, brevi ospitalità alberghiere e altro, fino a raggiungere una corruzione che ammontò alla pericolosa cifra di 800 euro, la toga dal cognome inquietante disse finalmente la sua. “Un pubblico ufficiale che si svende per poco è molto più riprovevole di chi si vende per molto”, butta lì. E come avrebbe potuto dire in alternativa, visto che il grosso scandalo non c’è e siamo ridotti a comportarci, come direbbe qualcuno di quelle parti, da “personaggetti”? L’avvocato Caiazza non può che ribadire quel che ha già argomentato nel corso del processo. Una delle accuse più sconclusionate e illogiche incontrate nella sua carriera. Per la lievissima entità dei benefici che sarebbero stati garantiti ai pubblici ufficiali, e soprattutto perché non è mai emersa, nel corso del dibattimento, alcuna contropartita a quei benefici. Al contrario. Il pm non l’ha detto, ma la parola la pronunciamo noi, allora.

Il piatto di lenticchie dov’è?

Dove è il piatto di lenticchie? Come si può costruire un processo per corruzione se il “corrotto” non dà niente in cambio di qualche gentilezza come un fiore o uno sconto sul prezzo di ingresso? Lo si può fare e lo si fa. Ma il punto è un altro, e i bravi avvocati come Gian Domenico Caiazza lo sanno e ci battono la testa ogni giorno. Perché nel “processo-tipo” il quesito che frulla nella testa del giudice è: se assolvo, non finisco per mettere in discussione la stessa credibilità della giurisdizione? Quindi implicitamente non passerò alla storia come quello che ha condannato il “suo” procuratore? Ecco perché, oltre alla separazione delle carriere, ci vorrebbe un giudice Morello. O almeno uno che la sera tenga accesa la luce e si disperi se deve condannare un innocente.