Il paradosso
Il “successone” dello sciopero senza larga parte dei lavoratori, così Cgil&Co. organizzano tre proteste per la pagliacciata della Flotilla
In solidarietà con quella pagliacciata della Flotilla sono stati proclamati nel corso di una settimana ben tre scioperi generali: il primo della Cgil, il 19 settembre di 4 ore in uscita, il secondo il 22 di un’intera giornata da parte del sindacalismo radicale di base, il terzo il 3 ottobre dalla strana alleanza tra la Cgil e varie sigle dei Cobas. Poi c’è stata la manifestazione del 4 ottobre che, essendo un sabato, non ha avuto bisogno della proclamazione di un’ulteriore astensione dal lavoro.
I media hanno celebrato il crescendo delle manifestazioni, le quali, pur con qualche esagerazione nel numero dei partecipanti, sono state comunque imponenti. Le cronache si sono soffermate sulle violenze, le devastazioni, l’assalto alle forze dell’ordine che hanno caratterizzato quelle giornate, con minore o maggiore vigore a seconda delle circostanze e dei protagonisti. C’è un aspetto che è rimasto oscurato: il sostanziale fallimento degli scioperi, salvo i casi in cui sono sufficienti alcune centinaia di agit prop per bloccare una città o un Paese. Se si volesse approfondire l’effettivo rapporto tra lo sciopero e le manifestazioni, troveremmo che le protagoniste di quella radiose giornate non sono state le aziende vuote, ma le piazze piene.
Lo spunto per questa riflessione lo ha fornito, in una intervista a Nunzia Penelope – per Il diario del Lavoro – un dirigente della Cgil, Stefano Malorgio, segretario della Federazione di trasporti: Attenzione però – ha sottolineato il sindacalista con molta e rara onestà intellettuale. I dati di adesione agli scioperi del 19 e del 22 rimangono molto differenti da luogo a luogo e comunque mediamente bassi, e questo ci dice un’altra cosa: che esiste una forbice tra la reazione della società civile e quella del mondo del lavoro. Quanto alle adesioni del 3 ottobre, a fatica si possono trovare le statistiche di una partecipazione molto ridotta nel pubblico impiego, mentre nei settori privati il fallimento era dato per scontato tanto da non preoccuparsi neppure di andare a far di conto. Alle medesime conclusioni è pervenuto un brillante intellettuale come Francesco Seghezzi che si è chiesto come mai su tematiche più prossime come i salari, lo sfruttamento dei tirocini, la discontinuità lavorativa, il sotto finanziamento di tanti servizi si muovano in pochi, pur riguardando la cosa molti, soprattutto nel loro quotidiano, mentre invece, la dimensione umanitaria e politica muove molto di più di quella economico-sociale. È quindi necessario – secondo Seghezzi – comprenderne le cause, perché sono l’espressione di una trasformazione più vasta.
In verità, si tratta di processi che avvengono da tempo: la riuscita degli scioperi ormai si misura dalla dimensione delle manifestazioni, quando invece il rapporto naturale del sindacato dovrebbe essere quello con i lavoratori. Non ha senso che uno sciopero proclamato da un sindacato raccolga, in prevalenza, nelle piazze studenti, centri sociali, estremisti d’ogni tipo, contestatori professionisti, cani perduti senza collare, nemici del governo in carica, pensionati, casalinghe inquiete e quant’altro, ma lasci pressoché indifferenti larghi settori del mondo del lavoro.
Non è un segnale negativo se le classi lavoratrici sono restie a farsi coinvolgere nella ventata di follia che ha frastornato l’opinione pubblica in una solidarietà acritica, alla fine dei conti verso Hamas, e in un odio viscerale non solo per Israele, ma per gli ebrei in tutti i punti della diaspora. Il fatto è che i lavoratori che scioperano e le persone che manifestano non appartengono alle stesse platee. Se ciò è vero il mondo del lavoro si trova con un sindacato, la Cgil, che per quanto importante sia, è divenuto una componente di un movimento movimentista tra i tanti la cui spontaneità all’ingrosso è guidata dalla rete dei social. In questa sua nuova mission la Cgil non si porta appresso significativi settori del mondo del lavoro. E quindi smette di rappresentarli come sindacato e diventa un’altra cosa, che tanti lavoratori faticano a riconoscere. Qui sta il paradosso che attanaglia in questo momento la sinistra politica e sindacale: pensa di dover risalire alle radici per recuperare il consenso perduto, ma alla fine del percorso si ritrova in mezzo ad un’altra realtà senza i lavoratori veri.
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