Il vento efficientista sulle impugnazioni penali: come può cambiare il giudizio d’appello

Sulle impugnazioni penali spira sempre più impetuoso il vento efficientista. Dalla prima tempesta tropicale delle proposte formulate nel 2014 dalla Commissione ministeriale si è passati attraverso le Sezioni Unite Galtelli del 2016, la riforma Orlando del 2017 per finire con l’uragano, tuttora in atto, della riforma Cartabia. Il clima estremo del furore efficientista è animato da uno smaccato sfavor impugnationis. La questione cognitiva si considera risolta già in fase di indagini, il giudizio di primo grado è conseguentemente pletorico, mentre ulteriori gradi di giudizio sono sterili superfetazioni, in sostanza perdite di tempo. Proprio il fattore tempo è divenuto l’ossessione del processo breve ad ogni costo, soprattutto a discapito delle garanzie che sono l’essenza stessa della procedura penale.

Al contrario, per l’epistemologia garantista la capacità autocorrettiva del processo penale presuppone la consapevolezza che la decisione del giudice può essere inficiata da errori di fatto o di diritto e, per tale ragione, deve essere suscettibile di impugnazione. La fallibilità del giudizio umano determina il favor impugnationis, ossia la tendenza a favorire il più possibile il fatto che l’affermazione di responsabilità sia vagliata da una pluralità di decisioni e di giudici, cercando in tal modo di minimizzarne il margine d’errore.

L’appello

Le impugnazioni sono, in definitiva, un’ineliminabile garanzia di verità e di giustizia; ridurne le possibilità di accesso significa accettare l’aumento esponenziale del rischio di errori giudiziari. L’impugnazione più odiosa per il legislatore efficientista è certamente l’appello, potenzialmente in grado di duplicare la decisione di merito, addirittura mediante rinnovazione istruttoria nei casi previsti dall’art. 603 c.p.p. Il disegno riformista vorrebbe perciò trasformare il giudizio di secondo grado da riesame nel merito a strumento di mero controllo sulla motivazione della sentenza impugnata. Per tentare di raggiungere questo risultato, si è imposta la specificità estrinseca del motivo di impugnazione, dimenticando, però, di aggiornare le norme sulla cognizione del giudice. Tecnica scadente o scarsa dimestichezza con le categorie dogmatiche hanno creato l’ibrido, poco comprensibile, di un giudizio bifasico: la pri­ma fase, sull’ammissibilità, riguardante solo la specificità (intrinse­ca ed estrinseca) del motivo; la seconda, una volta ritenuta ammissibile l’impugnazione, relativa alla cognizione del punto, a prescindere dalla critica esposta specificamente nel motivo.

Richiedere all’appello gravame la specificità dei motivi rapportati alla questione e alla motivazione della sentenza impugnata significa distorcere l’appello sul paradigma dell’azione di annullamento (ricorso, ossia impugnazione rescindente), quando dovrebbe invece rimanere una iniquitatis sententiae querela, vale a dire la denuncia dell’ingiustizia della decisione e la richiesta di un secondo giudizio (ossia impugnazione rescissoria, appello-gravame). A ciò si aggiunga che la specificità estrinseca avrebbe senso solo se ci fosse un altrettanto preciso modello predeterminato dei motivi di impugnazione (ad e­sempio, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione), come nel caso del ricorso per cassazione. La specificità va giocoforza rapportata a un paradigma legale che per l’appello non c’è proprio perché, nel merito, è ancora gravame e non ricorso. L’attuale anomalia dell’appello lascia però intravedere il punto d’arrivo che verrà probabilmente raggiunto dal lavorio incessante della giurisprudenza creativa: spacchettare il ricorso per cassazione e trasferire in capo alla Corte d’appello il controllo sulla logicità della motivazione, lasciando così alla Corte suprema gli altri vizi di pura legittimità.

Lo sviluppo

In tal modo si garantirebbe un consistente alleggerimento del carico di lavoro della Cassazione e si trasformerebbe l’appello di merito in vero e proprio ricorso per vizio di motivazione. Questo prevedibile sviluppo com­porterà una perdita secca in termini di garanzie, non tanto individuali, quanto di affidabilità della decisione: la scomparsa del giudizio d’appello, inteso tradizionalmente come riesame di merito, e la sensibile riduzione applicativa del ricorso per cassazione. Del resto, non ci vuole molto per capire come il controllo del controllo della motivazione sarà un’eventualità del tutto residuale. L’ulteriore rischio, correlato alla specificità estrinseca, è quello di importare nel giudizio d’appello la “cultura” della inammissibilità per manifesta infondatezza, ampiamente diffusa in Cassazione.

Perdita dell’impugnazione di merito, Corte d’appello che controlla la motivazione in luogo della Cassazione, inammissibilità dell’appello per manifesta infondatezza, Corte suprema che si dedica solo alle residuali violazioni di legge: sono tutti scenari perfettamente coerenti con l’ideologia illiberale dello sfavor impugnationis e con una giustizia efficiente solo nel determinare errori giudiziari. Bisogna denunciare chiaramente la deriva del processo breve a discapito delle garanzie epistemiche, prima che individuali. Verità e giustizia sono valori non negoziabili sull’altare del pretestuoso efficientismo del PNRR.