Impeachment, Trump asfalta i dem e ipoteca la vittoria per il mandato bis

Donald Trump entra nell’aula del Congresso, la speaker (sua personale e politica nemica) Nancy Pelosi gli va incontro. Lui le porge i fogli del testo che andrà a pronunciare. Nancy prende i fogli, poi gli porge la mano. Trump allora compie il gesto più formalmente brutale che si possa compiere in America, specialmente nelle istituzioni. La lascia con la mano in aria e prosegue verso il podio. Pelosi non è stata mai offesa così sanguinosamente. D’altra parte ha scelto di cacciare il Presidente eletto con un processo che ieri si è concluso dal voto di un Senato che è rimasto compatto dietro Donald Trump, salvo un paio di senatori repubblicani che però si sono subito pentiti della loro devianza.

Il Donald Trump che si apprestava a cominciare il suo discorso annuale sullo Stato dell’Unione era trionfante, persino tracotante, uno che sentiva il vento in poppa specialmente dopo aver assistito e commentato il disastro della macchina elettorale nello Iowa di cui tutti parlano: questi democratici non sanno governare nemmeno le loro elezioni interne, si sono mostrati al paese nella loro totale incapacità. Nancy Pelosi deve introdurre Trump e in genere lo Speaker della Congresso compie un gesto formale, usa parole appropriate, anche se è politicamente dalla parte opposta a quella del Presidente. Ma Nancy è furiosa e dice soltanto: «Il Presidente degli Stati Uniti». E il Presidente degli Stati Uniti comincia a leggere un discorso che dura un’ora e diciotto minuti in cui celebra il trionfo su tutti i fronti. Un’economia mai così prospera e in continua ascesa anche quando deve superare qualche momentanea difficoltà, il Paese, dice Trump, mai così unito (il che non è vero perché i sondaggi lo danno sempre sotto la soglia del 50 per cento come gradimento, ma per lui è sempre stato così e il consenso dei sondaggi non corrisponde a quello dei votanti) e l’America comanda senza volere un impero, l’America si fa rispettar da tutti gli Stati, l’America è in ottime relazioni con tutti, a cominciare dalla Cina per la questione annosa dei dazi, e tutto questo miracolo economico non è casuale ma corrisponde alla mia presidenza, dice Trump. Nell’aula le donne democratiche si sono vestite di bianco.

Sembrano suore o una squadra sportiva e seguendo i segnali convenuti fanno segno di no con la testa, si comportano come attrici di uno spettacolo e poi si alzano tutte in piedi così da costringere tutte le telecamere a inquadrarle, sottraendo attenzione alle parole di Trump, mettendo in scena un controcanto spettacolare come se fosse una nuova versione del superbowl. Trump va avanti impassibile. Tutti sono impassibili. Nancy Pelosi sembra pallida, o terrea ed ha in mano i fogli del discorso presidenziale, fogli che – come le verrà rimproverato più tardi – non sono appunti, ma costituiscono un documento ufficiale del Connesso americano. Ma lei li prende e li straccia, a metà, fingendo noncuranza mentre Trump parla ed elenca i suoi risultati: «Uccidendo Al-Bagdhadi, dice, abbiamo mandato un segnale forte e chiaro a tutti coloro che pensano di poter impunemente uccidere dei cittadini o dei soldati americani. Chi lo fa, si condanna a morte e noi ne abbiamo fornito la prova». Tutto il Paese sta seguendo il discorso. Come sempre accade, ma questa volta con maggior partecipazione perché tutti sanno dell’impeachment e vorrebbero sapere se Trump intende accennare al suo processo.

Ma Trump ha già detto che non ne parlerà durante lo speech, ma lo farà più tardi, lo farà in settimana in alcune occasioni già preparate con alcune televisioni. La liturgia dei numeri, delle percentuali, dei diagrammi illustrati con le parole è spietata e Donald Trump sta lì con quella sua voce un po’ roca e strascicata che è diventata il cult dei comici che lo deridono su tutte le reti più o meno democratiche e non mostra alcuna emozione. È addestratissimo a non mostrare emozione. Specialmente se sa che le telecamere gli sono addosso per spiare qualsiasi piega, nervo, sguardo, tic e lui parla, parla con lentezza metodica e ribadisce i punti fondamentali: l’America è sola perché ha scelto di non fare più da madre a nessuno, specialmente dell’Europa che per mezzo secolo ha bevuto il suo latte ingrassando e senza investire nella propria sicurezza, perché ha sempre immaginato che se il lupo arriva, basta gridare al lupo e l’America interviene.

Fine dell’illusione, spiega: questo vuol dire America First, badiamo agli interessi del popolo americano per primo, gli altri si fottano pure, a cominciare dai tedeschi che non nomina esplicitamente ma si sa che dietro il suo profondo rancore c’è la penetrazione dell’industria tedesca. Trump è rallegrato dall’acquisizione – così pensa lui – del Regno Unito di Boris Johnson come il cinquantunesimo Stato dell’Unione, l’Union Jack. Infatti, la massa d’ascolto di questo discorso è attentissima proprio nel Regno Unito dove ormai la vita politica americana è seguita con la stessa domestica attenzione che dedica alla Royal Family e alle vicende politiche interne. Mai abbiamo visto il Regno Unito e gli Stati Uniti così tentati dall’idea di restringere l’Oceano e congiungere Times Square con Piccadilly. Trump si gioca le sue frasi ad effetto: «Badate bene a quel che vi dico: il meglio deve ancora venire».


Nell’aula le deputate biancovestite oscillano mostrando disapprovazione, ma nei bar, tavole calde, Starbucks e ovunque il popolo americano stia azzannando un hamburger o una pizza, i commenti che raccolgono le telecamere delle televisioni sono per lo più entusiasti: gran Presidente, un uomo unificante, grande successo. Naturalmente i democratici, intesi come elettorato, stanno passando un momentaccio e si sentono giocati. L’effetto dell’operazione impeachment voluta da Nancy Pelosi finora ha fatto una sola vittima: il povero candidato Biden, l’ex vicepresidente di Barack Obama, quello che secondo l’accusa sarebbe stato bersagliato in maniera illegale e anzi criminale dall’uomo della Casa Bianca per farlo apparire un corrotto.

Purtroppo, stando ai primi risultati dell’Iowa, pare proprio che Biden stia diventando un’anatra zoppa. E per i democratici è una rovina perché Biden è il candidato centrista che può competere con Trump, mentre una vittoria di Barnie Senders o della Warren nelle primarie costringerebbe il partito ad assumere posizioni di sinistra radicale. Perderebbero. Naturalmente a questo punto si dovrebbe parlare e lo faremo presto, del nuovo candidato a sorpresa Pete Buttigieg che è la prova della capacità americana di sparigliare e di imporre l’outsider proprio mentre scoppia il caso dell’organizzazione del caucus dell’Iowa che ha mandato a puttane l’immagine stessa del Partito democratico. Naturalmente tutti questi elementi contribuiscono oggi a ingigantire il successo di Trump che si presenta come l’imperatore in trionfo sul carro, mentre i sacerdoti sono costretti a ricordargli che è mortale.

Il Trump dello speech sullo stato dell’Unione è apparso molto forte, ma potrebbe teoricamente crollare soltanto se il partito avversario trovasse un candidato con una personalità tale da stargli di fronte. Trump deride attraverso i social, pronuncia il discorso del trionfo, si attribuisce ogni merito e successo inseguito dai commentatori di sinistra secondo cui l’America è un gigante con i piedi d’argilla e che di qui a novembre lo Stato dell’Unione potrebbe diventare pessimo e The Donald vulnerabile al punto di poter potrebbe essere battuto. Tutto può essere, ma noi ci spingiamo spericolatamente verso una previsione su cui non scommettiamo molto, ma almeno una introvabile banconota da due dollari: allo stato attuale, Trump vince.

Vince perché i democratici sono in confusione politica incapaci di decidere fra una politica nettamente socialista come quella di Bernie Sanders e una politica centrista ma fortemente innovativa. Questa seconda linea potrebbe essere quella vincente per un giovanotto di ottime speranze come Pete dal cognome impronunciabile (decine di sketch su come diavolo si chiama e si dice quel cognome di origine maltese) il quale però sarà buono per la prossima volta. Stavolta Buttigieg farà tutto il suo cursus honorum ma dovrà vedersela con l’establishment che è contro di lui. Se non ce la farà a imporsi, si preparerà come sempre succede ai giovani talenti presidenziali, per il prossimo giro quando i tempi saranno maturi. Oggi il tempo sembra dalla parte di The Donald, a una condizione: che da qui a novembre tutto vada bene, che non ci siano crack improvvisi e che anche l’occupazione seguiti ad andare a gonfie vele e premi per la prima volta i cittadini afroamericani, mai così stipendiati e in progresso sociale, mai così in distacco progressivo dall’apparato clintoniano del partito dell’asino.