«Peccato, abbiamo tante qualità condivise, ma siamo separati dalla lingua comune» decretò l’irlandese Oscar Wilde di ritorno dagli Stati Uniti dove aveva denunciato allo sbalordito doganiere: «Nulla da dichiarare tranne il mio genio». Americani e inglesi sono più o meno lo stesso popolo? Oppure due popoli lontani e persino nemici? Oggi conosceremo i risultati delle elezioni nel Regno Unito e una delle poste in gioco è proprio la relazione speciale con gli Stati Uniti. Winston Churchill, che scrisse una eccellente Storia dei popoli di lingua inglese, che gli valse il premio Nobel per la letteratura (non potendolo ricevere per la guerra vinta) esaltava con forti sentimenti di fratellanza gli statunitensi, ma li considerava cugini – benché sua madre stessa fosse americana – e non fratelli o figli, come invece gli australiani, i neozelandesi e anche i canadesi e persino i sudafricani. Gli yankee sono un altro paio di maniche e hanno creato una lingua americana loro e persino un loro sport che arbitrariamente chiamano Football per declassare a Soccer, il vero football inventato dagli inglesi e diffuso nel mondo. Gli americani considerano il soccer un gioco da signorine e infatti la nazionale femminile di calcio americano in genere vince i campionati del mondo. Ma la questione aperta e di cui vedremo gli sviluppi (o il fallimento) nel 2020 è quella di un nuovo spettacolare rilancio del rapporto speciale fra Stati Uniti e Regno Unito che prevede due presupposti. Il primo, che Londra esca davvero dall’Unione Europea come Johnson si è impegnato a fare, senza saper bene dire come. Il secondo punto, o condizione, è che Donald Trump sia rieletto fra un anno e che possa proseguire nella politica di rapporti super-speciali con Canada e Messico da una parte e lanciando dall’Atlantico un ponte fino alla Torre di Londra, accogliendo il Regno Unito nell’area di sviluppo americana. “The Donald” ha spiegato più volte prima a Theresa May e poi a Boris Johnson che se il Regno Unito si deciderà a troncare i legami con Germania e Francia, diventerà il primo partner degli Stati Uniti, in pratica un matrimonio.
LEGGI ANCHE – Brexit, Trump promette a Johnson accordo commerciale: “Festeggia, Boris!”
Non è la prima volta, ma non è finita sempre bene. Guardiamo la storia. Tutti sappiamo che le 13 colonie inglesi in America che si ribellarono alle tasse sul tè e al divieto di avere rappresentanti (“No taxation without representation”) ottennero l’indipendenza dopo una dura guerra contro i mercenari tedeschi arruolati dall’Inghilterra, ma quasi nessuno ricorda più, nemmeno negli Stati Uniti, la terribile guerra fra le due nazioni ormai separate fra il 1812 e il 1816, quando nacque l’inno nazionale “The Star Spangled Banner” scritto sotto il bombardamento inglese sul porto di Baltimora. Gli inglesi bloccavano le navi americane che commerciavano con l’Europa in barba al blocco inglese contro Napoleone e arruolavano con la forza i loro equipaggi. Gli americani risposero attaccando il Canada che era la loro Vandea dove si erano rifugiati i traditori lealisti. Gli inglesi armavano gli indiani affinché attaccassero i coloni americani e alla fine tutti si stancarono di quel bagno di sangue che terminò tuttavia con una schiacciante vittoria americana sull’armata britannica a New Orleans quando era già stata firmata la pace. Ma la notizia non era arrivata.
Pochi sanno, o ricordano, che un secolo fa la frizione fra i due Paesi si acuì di nuovo e che proprio Winston Churchill cominciò a penare alla possibilità di uno scontro armato con gli Stati Uniti che volevano a tutti costi fare ciò che poi effettivamente fecero: distruggere l’impero britannico cominciando a sostenere l’India di Gandhi e poi appoggiare le guerre di indipendenza di tutte le colonie del regno. Churchill era un fanatico sostenitore dell’Empire che pronunciava aristocraticamente “Empaaaa” e gli americani avevano appena distrutto l’impero spagnolo con una guerra che aveva messo nelle loro mani sia Cuba che le Filippine. Quando Hitler attaccò la Francia e l’Inghilterra, Churchill supplicò il presidente americano Franklin Delano Roosevelt di consegnargli cinquanta fregate residuate dalla prima guerra mondiale, ma Roosevelt non ne voleva sapere perché il popolo americano era totalmente ostile alla guerra europea e gli americani di origine irlandese, fra cui il padre del futuro presidente John Fitzgerald Kennedy ambasciatore americano a Londra (e contrabbandiere di alcool durante il proibizionismo grazie alla sua copertura diplomatica) facevano più meno apertamente il tifo per i tedeschi in odio agli inglesi. Roosevelt inondava Churchill di enfatici messaggi di solidarietà e spediva grandi convogli di viveri e munizioni all’Inghilterra con la legge “Depositi e prestiti”, la cui contropartita era dichiarata: dopo la vittoria sulla Germania e il Giappone, l’Inghilterra avrebbe dovuto abbandonare l’impero e specialmente l’India.
Ciò era insopportabile per il primo ministro britannico più famoso di tutti i tempi che ingaggiò una partita doppia con il “caro presidente” americano, quando l’Unione Sovietica attaccata da Hitler si trovò alleata degli occidentali. Sia Churchill che Roosevelt si resero conto che la partita con Stalin era non soltanto complicatissima, ma anche cinica e che con il dittatore sovietico si sarebbero potuto fare molti doppi giochi. Churchill fece il primo viaggio a Mosca volando per quaranta ore in un lungo giro che lo portò in Africa e poi a Teheran. Stalin e Churchill non si piacquero ma al terzo giorno si ubriacarono insieme per una lunga notte di baldorie e Churchill promise al georgiano il mantenimento dei confini che aveva guadagnato dall’alleanza con Hitler fra il 1929 e il 1941. Roosevelt allacciò allora una relazione parallela antagonista e i due si rimpallarono l’assetto generale del dopo guerra fino alla conferenza di Yalta su posizioni lontanissime, anche se la filmografia ufficiale li mostrava affratellati. Gli americani avrebbero voluto sbarcare subito in Normandia, puntare su Berlino e poi dedicarsi al Giappone senza perdere tempo. Churchill li costrinse a sbarcare in Africa e a risalire l’Italia per penetrare il ventre molle del Mediterraneo e curare gli interessi dell’area di influenza inglese. Il maresciallo britannico Montgomery, che aveva battuto Erwin Rommel, “la Volpe del Deserto” tedesca, odiava il generale americano George Smith Patton, e tutti seguitarono ad odiarsi anche dopo la fine della guerra quando le due diplomazie entrarono in conflitto sulla politica da usare con i sovietici, dopo il celebre discorso nell’università americana di Fulton nel 1946 dove Winston Churchill usò per la prima volta il termine “iron courtain”, la cortina di ferro fatta calare dall’Unione Sovietica dal Baltico a Trieste. I servizi segreti dei due Paesi di lingua inglese si scannarono (si può godere la splendida serie “Traitors” con il raffinato dettaglio di una spia americana smascherata perché pronuncia la parola “Opera”, nel senso di opera lirica “Op’era”, anziché “Oppra” come vuole la fonetica britannica) con una lunga scia di morti, mentre i servizi inglesi erano stati irreparabilmente penetrati dai sovietici grazie al tradimento dei “Cinque di Cambridge” e in particolare dell’aristocratico Kim Philby che finì i suoi miseri giorni in un gelido scantinato di Mosca. Americani e inglesi si consideravano reciprocamente come inaffidabili, mentitori e traditori.
L’apice dello scontro si ebbe nel 1956 con Suez. L’Egitto si era ribellato al padronato britannico cacciando il collaborazionista re Faruk ed era arrivato al potere Gamal el Nasser, un colonnello filosovietico che nazionalizzò il Canale di Suez. Anthony Eden, primo ministro britannico organizzò un piano per ucciderlo e poi attaccò l’Egitto con la Francia e il sostegno di Israele. Da Mosca, il successore di Stalin, Nikita Krusciov – che pure aveva i suoi guai con la rivoluzione ungherese che represse con i carri armati – disse semplicemente che se inglesi e francesi non avessero immediatamente sospeso il loro attacco, avrebbe risposto con armi atomiche. Eden si rivolse a Washington dove era Presidente l’ex comandante in capo delle Forze alleate Dwight “Ike” Eisenhower, che vedeva gli inglesi come il fumo negli occhi, disse: «Siamo d’accordo con i russi». Gli inglesi si ritirarono ma non perdonarono. La loro India era persa, l’impero era caduto e gli Stati Uniti li avevano rimpiazzati come poliziotto armato del mondo. In contropartita, quando il presidente Lyndon Johnson chiese agli inglesi di aiutare gli americani in Vietnam, il numero 10 di Downing Street rispose con il gesto dell’ombrello.
