Mi ricordo, sì, io mi ricordo. Perché una conquista di libertà, di civiltà, non la si dimentica neanche a mezzo secolo di distanza. Della campagna referendaria in difesa della legge sull’aborto, Massimo Teodori è stato uno dei protagonisti. Storico, saggista, professore ordinario di Storia ed istituzioni degli Stati Uniti, Teodori è stato uno dei fondatori del Partito radicale nel 1956 e dei rifondatori nel 1963, oltre che parlamentare per più legislature. Nel cinquantennale della legge sul divorzio, Il Riformista lo ha intervistato.
Cinquant’anni fa l’Italia si scopre più laica e meno clericale. Cinquant’anni dopo, quale è la cosa che è rimasta più impressa a lei che di quella battaglia per il divorzio è stato uno dei giovani protagonisti?
L’Italia non si scoprì più laica di quello che era. I partiti che votarono in Parlamento subirono la pressione di un gruppo laico, formato da radicali e socialisti, e da altri laici riuniti nella Lega italiana per il divorzio, un movimento extraparlamentare ma non extraistituzionale. Quel movimento rivelò un sentimento diffuso nel Paese a cui non corrispondeva la maggioranza dei partiti laici e di sinistra in Parlamento. Il gruppo socialista e liberale in Parlamento alla fine costrinse il Partito comunista a votare la legge che arrivò in porto il 1° dicembre 1970. Quattro anni dopo, il referendum in quell’indimenticabile 12 maggio 1974. Un referendum chiesto dai clericali e che il Pci non voleva e che cercò di evitare fino alla fine con il compromesso che prese il nome di “Andreiotti”, fra Andreotti e Nilde Iotti, per trasformare la legge sul divorzio in legge soltanto per il divorzio civile; proposta che fu respinta dai laici, soprattutto radicali e socialisti, che invece ritenevano che anche nel Paese avrebbero vinto. Per il “sì” si schierò la Democrazia cristiana di Amintore Fanfani, l’Msi di Giorgio Almirante e, soprattutto la Conferenza episcopale italiana e Paolo VI che si pronunciarono apertamente con un grosso vulnus in termini anche di Concordato. Il 60% votò contro l’abrogazione, il 40% per l’abrogazione. Fu in quel momento che venne fuori che il Paese era più avanti di come lo erano i partiti in Parlamento, che furono trascinati da un “motorino” attivo che era composto dai radicali, una parte dei socialisti e di liberali e altri laici. Questa è la vera dinamica, se vogliamo ricostruire storicamente il rapporto tra partiti, Parlamento e società.
Perché da questa grande battaglia di civiltà non uscì fuori qualcosa che si potesse proiettare con forza e in modo duraturo sullo scenario politico italiano?
Perché all’indomani della vittoria referendaria il Pci disse subito: dobbiamo chiudere questa parentesi, perché quel referendum, che era stato voluto dalla destra radicale – con il comitato promosso da Gabrio Lombardi, Sergio Cotta, Augusto Del Noce, Giorgio La Pira e Gabrio Lombardi – fu, sul piano politico, di fatto un referendum contro Berlinguer.
Su cosa fonda questa asserzione?
Siamo nel 1974, Berlinguer era fortemente lanciato sul compromesso storico. Disse che quella parentesi andava chiusa perché rompeva l’unità dei partiti popolari, la possibile unità del movimento sindacale, e determinava uno scontro tra i laici anticlericali e il mondo cattolico. Allora, però, si verificò una importante novità: quella dei cattolici del “no”, guidati da Pietro Scoppola, Raniero La Valle, Luigi Pedrazzi, Pierre Carniti, Wladimiro Dorigo e dom Franzoni. A referendum consumato, Pier Paolo Pasolini scrisse sul Corriere della Sera: «La vittoria del no è in realtà una sconfitta non solo di Fanfani e del Vaticano ma in un certo senso anche di Berlinguer e del Partito comunista, perché dicevano di non volere la guerra di religione». Dietro alle posizioni di radicali, socialisti, liberali, laici da un lato, e dei comunisti dall’altro, c’erano due strategie diverse. Da una parte, la strategia del compromesso storico, che Berlinguer aveva lanciato con i famosi articoli su Rinascita, nel 1973, nel quale argomentava la sua convinzione che occorreva che le forze popolari si unissero per evitare una involuzione autoritaria. Dall’altra parte, invece, c’era l’idea di un’alternativa fondata sul socialismo libertario, sui diritti civili. Questo era quello che noi radicali pensavamo…
E nel Psi?
Nel Psi c’era Francesco De Martino, allora segretario del partito socialista, che era su posizioni filo berlingueriane, mentre Giacomo Mancini era schierato con Loris Fortuna. Da quella linea lì poi venne fuori Bettino Craxi, con il congresso del “Midas”, luglio 1976, che ribaltò De Martino e la sua linea che vedeva il Pci come una “spalla” insostituibile. Dall’approvazione della legge in Parlamento, prima, e col referendum, dopo, e in mezzo la nascita del movimento femminista, c’è una linea di continuità che portò poi all’approvazione da parte del Parlamento della legge 194 sull’aborto. Era il 22 maggio 1978. Anche in quell’occasione ci fu una grossa resistenza comunista. Quando parlo di resistenza comunista, è bene chiarirlo, mi riferisco al vertice del gruppo berlingueriano, non parlo della base. In tutta la battaglia per il divorzio ci fu una grande, decisiva, partecipazione sia della base del Pci e, nel referendum, sia di quelli che votavano comunista. In sostanza, il grande sconfitto di quella storia lì è Enrico Berlinguer. Berlinguer e il suo gruppo cattocomunista. Perché dietro a Berlinguer c’era Tonino Tatò, e dietro a Tatò c’era Franco Rodano.
Oltre il divorzio quali erano le strategie politiche dietro il referendum del 1974?
La contrapposizione fu tra il compromesso storico di Berlinguer e l’alternativa riformatrice. Due furono gli episodi simbolici dei riformatori: il 10 maggio 1974 si tenne a Roma, Piazza del popolo, un oceanico comizio di cinque padri della patria, Ferruccio Parri, Pietro Nenni, Giuseppe Saragat, Ugo La Malfa e Giovanni Francesco Malagodi, per la prima e unica volta insieme su un diritto civile; e il pomeriggio del 13 maggio si radunarono a Piazza Navona migliaia di cittadini convocati dai radicali di Mellini, che ebbe un ruolo fondamentale in questa battaglia referendaria, e Pannella e dai socialisti di Fortuna per la festa della vittoria che diede vita a un immenso corteo che nella notte percorse la città fino a Porta Pia. Mi lasci aggiungere i nomi di altre donne e uomini che di quel “motorino” di avviamento furono protagonisti: Giorgio Benvenuto, segretario generale della Uil, Alessandro Galante Garrone, Adriano Buzzati Traverso, Gabriella Parca, Miriam Mafai, Luciana Castellina. E ricordare anche un giornale, ABC, che organizzò la campagna dei “fuorilegge del matrimonio” che sfociò in una manifestazione a cui presero parte oltre 30mila “fuorilegge”.
Guardando con gli occhi dell’oggi, cosa è rimasto di quello spirito referendario?
La mia idea è che i laici tradizionali – liberali, repubblicani, socialdemocratici e socialisti in parte – si misero in movimento perché ci fu un motorino d’avviamento molto forte. Quando quel motorino, fatto sostanzialmente dai radicali e da una parte dei socialisti, si fermò, si fermò tutto. Perché in termini parlamentari non sono stati mai di per sé maggioritari. Divennero tali in un momento eccezionale, perché si mosse la base del Paese, prima la Lega per il divorzio, i movimenti femministi per il divorzio e sull’aborto dopo. Quei movimenti furono negli anni ’70 la vera alternativa al terrorismo, in termini di società civile. Perché credevano nell’importanza dell’azione nel sociale, ma al tempo stesso coglievano anche l’importanza di avere degli sbocchi istituzionali. Su questo insisto molto: erano movimenti sociali ma non anti-istituzionali. Credevano nel cambiamento delle leggi. Questo è il punto. La strategia dei diritti civili credeva nella riforma delle leggi, e non credeva nel ribaltamento rivoluzionario, nella lotta armata o nella violenza purificatrice. Lì ci furono anime diverse del Paese.
Lei ha fatto riferimento all’importanza di quel “motorino di avviamento”, animato essenzialmente dai radicali. Solo per citarne alcuni: Marco Pannella, Mauro Mellini, ed ancora Emma Bonino, Maria Adelaide Aglietta, Adele Faccio, Gianfranco Spadaccia… Ma perché quel “motorino” non è riuscito mai a decollare?
Posso dire la verità? E la dico con la morte nel cuore perché io, come tanti altri, all’alternativa riformatrice, laica, socialista e libertaria, ci ho creduto davvero e ho impegnato gli anni migliori della mia vita. Perché a un certo momento, alla fine degli anni ’70, quando stava decollando, Pannella si ritirò in se stesso per fare lo sciamano e non il leader politico. Marco abbandonò questo progetto di alternativa riformista, laica, democratica, socialista per mettersi a fare lo sciamano, salvare dieci milioni di vite nel Terzo mondo o cose del genere, tutte poi finite nel nulla. La mia tesi è che la battaglia laica, democratica e socialista fu rianimata da Marco Pannella fino al 1979, dal ’79 in poi c’è il Pannella numero due che decide di essere il solitario sciamano nonviolento che non ha bisogno di una forza politica né crede nella politica, ma crede nell’attività personale. C’è la moltiplicazione degli scioperi della fame che vanno tutti quanti a vuoto. Mentre quelli di prima erano funzionali a degli obiettivi politici, poi comincia a farli a ripetizione sul nulla. E poi è stato rovinato dai suoi ultra fedeli, come succede a tutti i grandi personaggi che si circondano di yesman fedeli che ripetono a pappagallo le sue parole.
