Israele non è forte perché ha un esercito forte. Israele è forte perché ha investito in sapere scientifico, in ricerca, nell’istruzione, nell’avanzamento tecnologico. Soprattutto, Israele è forte perché la società israeliana è libera e perché sono liberi i cittadini che l’hanno costruita.
Le reti produttive, finanziarie e industriali delle democrazie economicamente avanzate che commerciano e definiscono protocolli di collaborazione con Israele non lo fanno valutando il numero dei carri armati e dei caccia di cui dispone lo Stato ebraico. Lo fanno perché Israele è affidabile, e perché rinunciare a esserne partner significa rinunciare a possibilità di sviluppo e di posizionamento competitivo.
Se non è mai esistita nessuna politica di isolamento, di embarghi e boicottaggi nei confronti delle democrazie economicamente avanzate non è perché queste proteggevano con le armi la propria azione produttiva e commerciale: è perché l’efficienza di quelle economie, fondate su società libere e sorrette da sistemi democratici affidabili, remuneravano in benessere più diffuso e in maggiore stabilità il circuito dei partecipanti a quel sistema virtuoso.
Per questo motivo non funzionano le architetture di blocco disegnate nelle risoluzioni, nelle mozioni, nelle raccomandazioni rivolte alla chiusura dei rapporti economici e commerciali con Israele. Non perché sono ingiuste, ma perché sono incompatibili con la realtà che va necessariamente da un’altra parte perché non può rimanere inviluppata in quelle limitazioni insensate. Non senza ricordare che, oltretutto, non una delle iniziative vagheggiate in campo internazionale e umanitario a detrimento delle possibilità produttive, economiche e commerciali di Israele porterebbe qualsiasi vantaggio alla popolazione palestinese, né avvicinerebbe anche solo di poco la soluzione del conflitto. I sistemi di difesa, i farmaci, le biotecnologie, le intelligenze artificiali, le invenzioni nella produzione agricola, i ritrovati in campo medico, sanitario e diagnostico che vengono da Israele arricchiscono di progresso le società che li adottano e se ne valgono.
Immaginare che si tratti di un dispositivo di profitto organizzato dall’entità coloniale che scarica bombe sul diritto di autodeterminazione dei palestinesi, magari con la complicità di multinazionali e Stati senza scrupoli, va bene per i pamphlet delle agitatrici dell’Onu che straparlano di “economia del genocidio”. Ma sono soltanto, ancora una volta, desolanti dimostrazioni di ideologico attaccamento all’irrealtà. Se Israele prospera, essendo passato in pochi decenni da un’economia da Terzo Mondo alla posizione attuale, cioè al vertice qualitativo dei sistemi democraticamente avanzati, è perché ha investito in sé stesso, nella propria libertà e nel proprio futuro. È perché non ha investito in una rete di tunnel. Resta così anche se si fa finta che non sia così.
