Sono a Molare; nel guardare la montagna sventrata dal crollo della diga sul fiume Orba avvenuto alle ore 13,15 del 13 agosto 1935 mi dico che a volte i luoghi conservano una memoria dei fatti che vi accaddero. Adesso, Molare, novant’anni esatti. Anni fa tra Albania ed Epiro avevo percepito come un urlo dissonante di migliaia di voci mentre mi sporgevo dal moncone del ponte di Perati che si protende, mutilato, sull’acqua tersa come cristallo del torrente; era il 1941 quando lo sterminio degli alpini della Iulia tinse di rosso l’acqua della Voiussa.
Un 28 giugno a Saraievo mi ero seduto sulla spalletta del Latinski Most e socchiudendo gli occhi avevo visto Gavrilo Prinzip uscire dalla pasticceria Moritz Schiller all’angolo con via Franio Iosip – no, riapro gli occhi, oggi si chiama via Zelenih Beretki – e se tenevo gli occhi socchiusi lo vedevo sparare con la semiautomatica Fn contro Francesco Ferdinando e dare il via all’inutile strage della prima guerra mondiale; e sì – così mi dicevo seduto sulla spalletta all’angolo del lungofiume – quell’incrocio conserva la memoria di ciò che vi accadde.
Adesso sullo spalto della diga di Ortiglieto, frazione del comune di Molare, distretto di Ovada, provincia di Alessandria, cerco di capire come il 13 agosto del 1935 si dissolse la vecchia diga, come si sgretolò la montagna su cui la muraglia era posata, come l’acqua uccise 110 persone, forse 115, forse 120, il numero esatto non si sa, trascinati dal muro d’acqua nel nulla senza colore.
Il 13 agosto 1935, ore 13,15, il disastro della diga di Molare. Oggi. Eccomi. Ci sono. Ascolto. Guardo tra le foglie dei castagni. Sì, quello sbrego di roccia chiara, alto decine di metri che sbreccia dall’alto in basso la montagna come se fosse spaccata da un coltello dei giganti, sì, quello sbrego conserva oggi la memoria di quella tragedia di novant’anni fa. Molti hanno sentito parlare del disastro del Vaiont; avvenne sulla valle del Piave la sera del 9 ottobre 1963 e uccise 2mila persone. La montagna, come ormai era previsto, si rovesciò dentro il lago, l’acqua scavalcò la diga – la diga è ancora intatta, altissima, perfetta, pare ripassata con l’intonaco fresco – e cancellò Longarone e i suoi abitanti. Pochi sanno del Gleno, in val di Scalve (Bergamo), quando il 1° dicembre 1923 una diga progettata col culo si dissolse e uccise 356 persone (cifra ufficiale. Forse ne uccise 500).
Tre guide

Le dighe
A Molare per trattenere il fiume Orba sono state costruite tre dighe. Due furono alzate nel 1926; insieme formavano il grande lago; una delle due crollò nel 1935 facendo strage e l’altra rimase a secco, altissima, abbandonata, testimone silenziosa in una valle irraggiungibile. La terza diga, quella attuale di Ortiglieto, una tavola bassa di calcestruzzo posata di traverso sul greto del fiume, fu costruita nel 1940 dopo la tragedia del 1935, poco lontano dalle rovine di quella crollata, ed è ancora attiva; la concessione oggi è della società elettrica italiana Tirreno Power. Questa diga piccola del 1940, come è ovvio, non è la stessa diga crollata nel 1935, ma ne riusa la galleria e la condotta forzata dell’impianto originario. Sulle fondazioni della grande centrale idroelettrica distrutta di Molare è stata costruita la centrale più piccola di Ortiglieto; tra le pale delle sue turbine frulla l’acqua che fluisce lungo il fiume Orba e produce ogni anno 14 milioni di chilowattora.
Il progetto
Il lago, in cui si raccoglieva l’acqua piovana di un bacino enorme di 150 chilometri quadri di montagna disabitata, salì da 8 a 18 milioni di metri cubi; il progetto della centrale si ingigantì da 1.589 a 24mila cavalli (18 megawatt). Fu alzato il livello del lago di altri 13-14 metri, aggiungendo un orlo più alto alla diga e arrivando a 47 metri complessivi. Sul fondo del lago fu scavata una galleria quasi orizzontale, pendenza uno per mille, lunga 2,7 chilometri, e poi l’acqua sarebbe scesa in pressione giù per una condotta forzata, un tubo colossale d’acciaio verniciato di antiruggine verde opaco che per 420 metri corre dritto sul fianco ripido della montagna giù fino alla centrale elettrica lontana, in basso, vicino al paese. Si riconosceva il genio inconfondibile del grande architetto Piero Portaluppi, l’archistar dello stile decò e della grammatica littoria, quello che a Milano ha disegnato il planetario e villa Necchi Campigli. Il progetto della centrale di Molare fu pubblicato nel 1924 dalla rivista Aedilitia.
I piedi d’argilla
Ecco il dettaglio della tragedia: il lago artificiale, ora diventato così alto, da una parte avrebbe scavalcato un colle e sarebbe tracimato da un lato. Bisognava alzare la collina laterale, e per alzarla serviva costruire una seconda diga, di lato. Questa seconda diga fu posata senza fare studi geologici su dove avrebbe infisso le fondazioni. Sotto la collina da rialzare non c’era roccia solida e compatta: ben salda la prima diga, ma questa seconda diga era infissa in una frana di sassi e terra, e non lo si sapeva. L’unico studio geologico a sostegno del progetto fu una relazione di cinque pagine pubblicata nel 1899 dall’esimio professor Salmoiraghi: “Oso dire, che in qualsiasi punto di questa regione può con sicurezza impiantarsi uno sbarramento. Anche rispetto alla impermeabilità intrinseca della roccia non possono nascere dubbi”. La diga laterale fu costruita in tutta serenità su argilla e pietrisco. L’impianto cominciò a funzionare nel 1925 e fu completato nei dettagli nel 1926.
La pioggia
Alle 13 arrivò giù a Ovada l’ultima chiamata dalla centrale di Molare; esortava “ad avvisare le Autorità locali ed anche il Genio Civile di Alessandria che il pericolo era imminente.” Alle 13,15 la cascata che scavalcava le due dighe era un materasso di acqua diventato spesso cinque metri sopra al ciglio dei due sbarramenti e ruggiva feroce sopra il bordo e precipitava furioso giù sul greto a 50 metri più sotto. La cascata che dall’orlo precipitava dall’alto fino ai piedi della diga aveva scalzato in pochi minuti il colle di terra e sassi su cui era posata la diga laterale. La collina si sciolse in fango, con la collina si sbriciolò la diga che vi era appoggiata sopra. La montagna si aprì e più di 20 milioni di metri cubi di acqua e fango precipitarono nella valle, scavarono un taglio verticale nella collina fino alle sue radici.
L’onda esplose nella valle. Pare che avesse trascinato via un vecchio, un bambino, un mulo. Un venditore ambulante era nell’osteria di Castellocielo, sgretolata prima dalla spallata dell’aria e poi dall’acqua. Poi il muro d’acqua e fango distrusse fino alle fondamenta la centrale elettrica, dalla cui rovine la condotta forzata continuò a sparare per ore contro il cielo una fontana enorme alta 30 metri. L’onda nel correre a valle spazzava tutto e tutti sul fiume. Uno alla volta furono sbriciolati i ponti, i mulini, le case, gli opifici lungo il fiume Orba. Alle 14,15 l’onda investì Borgo di Ovada, uccise 65 persone. A Capriata morirono due fratelli di 12 anni e di 20 mesi, la madre e il podestà. Alle 14,30 del 13 agosto 1935 la pioggia si fermò. Nei giorni successivi si ritrovarono cadaveri trascinati per molti chilometri. Un corpo fu trovato negli anni ’60 durante alcuni scavi e fu identificato da un anello.
Il processo
La vita continua
Per lenire il dolore del lutto si dice che la vita continua. Sì, continua; ma continua in modo diverso, ciò che fu non sarà più; così – la vita continua – nel 1940 le Oeg cercarono di ricuperare ciò che era possibile: fu posato il piccolo sbarramento sul greto del fiume per alimentare con acqua fluente la vecchia galleria e la condotta forzata; sulle fondazioni della vecchia grande centrale fu costruita una piccola centrale idroelettrica, poi nazionalizzata nell’Enel, e infine privatizzata. Il corso del fiume è il confine tra il Piemonte di qua e la Liguria qui di fronte; nel visitare l’impianto, le vasche di decantazione, le briglie di calcestruzzo e le passerelle di acciaio passo più volte da una regione all’altra. L’estate attira bagnanti davanti al piccolo sbarramento che forma un laghetto di acqua gelata. I cartelli avvertono che le portate del fiume possono variare velocemente, rimanere a ridosso di prese paratoie sgrigliatori può essere pericoloso, come in tutte le dighe c’è anche una sirena dall’urlo terrorizzante per avvisare quando avviene il rilascio volontario dell’acqua ma, in questo 13 agosto alle ore 13,15, appena più in là gente senza pensieri stende il telomare sui sassi del greto, gridi acuti di bambini; giocano nell’acqua fredda e trasparente.
