Ma mai dimenticare
Vajont, una ferita di cemento: 60 anni dopo la tragedia: “Come Pompei dopo l’eruzione”
Un silenzio spettrale sovrasta l’insopportabile ferita di cemento che provocò la strage che sconvolse il mondo la notte del 9 ottobre del 1963. A vederla oggi, la diga a doppio arco, costruita nella fragile morfologia della valle del torrente Vajont ai confini tra Veneto e Friuli, è terribilmente imponente. È sempre lì, alta 261,60 metri, lunga 190 e larga 130, con lo spessore alla base di 22,11 metri e alla sommità di 3,40. Una sfida ingegneristica di altri tempi certo, ma una sfida arrogante, cieca e famelica contro la Natura che non perdona.
Non c’è più il lago artificiale, il bacino idrico da 168 milioni di m3 che era appena stato riempito dall’acqua del torrente ed era già pronto a ricevere anche quella dei bacini artificiali del Cadore, per convogliare i flussi verso la centrale idroelettrica di Soverzene e permettere alla società costruttrice Sade e poi a Enel e Montedison di gestire il rifornimento energetico al Nord e soprattutto per il nuovo petrolchimico di Marghera. Oggi, alla fine dei suoi 14 km di corso dalla vetta del Col Nudo, il Vajont va a sfociare nel Piave qualche chilometro più in là, davanti a Longarone e Castellavazzo. Ma la diga è sempre piena, colma di terra e rocce e materiali trascinati dalla frana-killer. E il possente manufatto da 360.000 metri cubi di calcestruzzo, sostiene la montagna che lo sovrasta che non a caso porta il nome beffardo e premonitore di Monte Toc. In zona la parola Toc vale “marcio”, “in bilico”, “pericolante”. Più giù, nella stretta valle di fronte a Longarone, a Fortogna, ti accoglie la tristezza infinita del Memorial dedicato alle 1.910 vittime, tra cui 487 bambini, ma con tanti corpi mai più ritrovati. È Monumento Nazionale dal 2003.
Lo sbarramento artificiale che doveva essere il più ardito e più grande del mondo, da sessant’anni è invece solo il simbolo internazionale delle catastrofi impossibili da spacciare come “incidenti”, è la medaglia del disonore con colpe e colpevoli accertati e che racconta la strage ampiamente annunciata e dovuta aalla tenace sottovalutazione dei rischi idrogeologici e alla totale incoscienza nel corso dei lavori e nella gestione. L’Onu l’ha inserita nella classifica mondiale dei disastri procurati dall’uomo che dovevano e potevano essere evitati, tra i peggiori esempi di malagestione del territorio e di una diga contronatura pianificata nel posto sbagliato per biechi interessi economici e tirata su con connivenze accertate nell’amministrazione dello Stato e nelle aziende di Statoz Una impressionante catena di omissioni, irresponsabilità, truffe ed errori fatali scatenarono la fine del mondo nella maledetta serata del 9 ottobre del 1963.
Erano le 22.39 di un mercoledì di coppa, le televisioni nelle case erano poche ma i circoli e i bar erano pieni per la sfida Real Madrid-Glasgow Rangers. La mostruosa frana di roccia si era però distaccata definitivamente e, in una ventina di secondi, mezzo Monte Toc piombò nel sottostante bacino idrico con un fronte di almeno 270 milioni di metri cubi ad una velocità da 70-90 km all’ora. All’impatto con l’acqua, l’enorme collasso di frana velocissimo e compatto sollevò un’onda terrificante da 50 milioni di metri cubi d’acqua alta 70 metri sopra l’arco della diga, proiettandola contro il cielo. Quell’onda scavalcò l’arco della diga e balzò nella gola e con un rombo mostruoso la massa d’acqua si abbatté sulle case come un colpo di maglio. Si divise in tre direzioni: una parte fu catapultata verso le abitazioni di Erto e Casso, un’altra a distruggere alcune frazioni e la più grande con un fronte di oltre un chilometro e 25 milioni di metri cubi di acqua e detriti ad una pressione immensa rase al suolo la stretta valle sottostante con Longarone e Pirago, Maè, Villanova, Rivalta, Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè e la parte bassa di Erto. Nessuno ebbe il tempo di reagire.
È stata la strage prevedibile, prevista, annunciata e denunciata dalla coraggiosa Tina Merlin, la giornalista de “l’Unità” che diede battaglia alla società di costruzioni Sade, definita “uno Stato nello Stato”. Nell’Italia geologicamente molto giovane, la più esposta a rischi idrogeologici, si scoprì che la commissione di collaudo della diga era a libro paga dei costruttori, che furono messi alla porta quei geologi che mostravano le rocce fessurate accertando il lento inarrestabile scivolamento della frana dal versante settentrionale del Monte Toc. Uno di loro, Leopold Müller, il geologo fondatore della scuola geologica di Salisburgo, fatti anche i carotaggi stratimetrici, espresse forti dubbi sulla tenuta della montagna e della diga, come i due geologi Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, e Franco Giudici. Eppure, nel settembre del 1959, iniziarono le prove di invaso. Ma nel novembre del 1960 una prima grande frana da 700 mila metri cubi precipitò dentro l’invaso generando un’onda di 10 metri che impattò contro il muro interno. Fecero finta di nulla e proseguirono le prove di invaso anche se la pressione di spinta riattivava i movimenti franosi.
La Sade aveva costruito la catastrofe perfetta ingaggiando consulenti ministeriali e professionisti compiacenti, che confutavano la verità incombente. Doveva correre chiudendo un occhio perché scadeva il termine per la conclusione dei lavori, pena la perdita dei contributi statali del 45% e la mancata vendita dell’impianto all’Enel appena nata. Invece di fermarsi, accelerarono. Nell’aprile del 1963 ci fu la terza e ultima prova d’invaso proprio mentre si intensificavano i fenomeni tellurico-tettonici che imposero ai comuni prospicienti la chiusura della strada che portava al bacino. Gli alberi li vedevano tutti, erano piegati in posizione quasi orizzontale. Ma niente. Solo il giorno prima della strage, l’8 ottobre, di fronte ai primi crolli provarono con lo svaso. Troppo tardi.
La scena davanti ai primi soccorritori, all’alba del 10 ottobre, fu quella di Pompei dopo l’eruzione. La coraggiosa Tina Merlin, era stata denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, ma fu assolta dal Tribunale di Milano. Però, quando provò a pubblicare il suo libro sul Vajont “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe”, non trovò un editore fino al 1983. Gli atti del lungo processo portarono alle condanne dei responsabili e un imputato al suicidio. E solo 37 anni dopo, il 27 luglio del 2000, i corresponsabili del disastro – Stato, Enel e Montedison – chiusero tutti i contenziosi accollandosi per un terzo ciascuno 900 miliardi di vecchie lire di oneri e danni con risarcimenti riconosciuti ai comuni danneggiati.
La strage rallentò da allora anche la costruzione delle nostre dighe, cambiando la percezione della sicurezza degli sbarramenti anche se il manufatto non crollò. Sono oggi 531 le grandi dighe italiane. Nuove norme e obblighi di legge garantiscono la loro massima sicurezza, le tecniche costruttive sono dipendenti dalle analisi geologiche, dell’orografia e della morfologia dei luoghi vallivi, dell’idrologia, della tipologia dei terreni e delle rocce e delle caratteristiche dei corpi fluviali. L’attività di vigilanza dello Stato è attuata fin dalla loro localizzazione e progettazione.
Ma mai dimenticare. E saranno molte e molto affollate le iniziative per il sessantesimo della strage, a partire dal progetto teatrale di Marco Paolini e Gabriele Vacis “Vajonts23” che sarà messo in scena lunedì in contemporanea in cento luoghi d’Italia.
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