È morto Ozzy Osbourne, una delle voci più inconfondibili della musica, un’icona dell’heavy metal, un urlo trasformato in linguaggio. Negli ultimi anni aveva smesso di cantare, il Parkinson lo aveva rivelato nel 2020, lo ha colpito anche lì nella voce, nella capacità di parlare e muoversi, nella sua stessa identità.
Parkinson, può l’IA riconoscere segnali della malattia?
E allora viene da chiederselo, può una malattia cominciare da lì? Da un verbo che non arriva? Da una frase che si spezza? Da un racconto che si fa fatica a pronunciare? Può il corpo tradirsi prima ancora di tremare? E può l’intelligenza artificiale riconoscere il segnale prima che sia troppo tardi? In questa puntata vi porto dentro una ricerca italiana che fa parlare la scienza, letteralmente.
La ricerca per addestrare l’algoritmo
Al Maugeri di Bari a un gruppo di pazienti, alcuni con Parkinson, altri no, è stato chiesto di parlare, descrivere immagini, raccontare storie, parlare liberamente. Una serie di attività linguistiche apparentemente innocue, ma ogni parola, ogni esitazione, ogni scelta lessicale è stata registrata, analizzata, scomposta. Perché? Per addestrare un algoritmo. L’obiettivo era capire se nel linguaggio si nascondano i primi segnali della malattia di Parkinson.
Cosa è stato scoperto sui pazienti con Parkinson
Lo studio realizzato dalla Scuola Universitaria Superiore di Pavia, insieme al Maugeri, ha cercato di costruire dei biomarcatori digitali del linguaggio. Un biomarcatore è un indicatore oggettivo e misurabile di un processo biologico. Quando è digitale vuol dire che viene ricavato da dati raccolti e analizzati da tecnologie avanzate, in questo caso da un’intelligenza artificiale.
L’algoritmo ha raggiunto un’accuratezza del 77% nel distinguere i pazienti malati da quelli sani. Ma come ci riesce? I ricercatori hanno scoperto che i pazienti con Parkinson usano meno verbi d’azione, fanno più pause, si correggono più spesso e producono meno parole appartenenti a categorie aperte come nomi e verbi. È come se il cervello facesse più fatica ad accedere al lessico e questa fatica si sente.
Tutti gli interrogativi
Ma serve un orecchio nuovo o meglio un orecchio artificiale per coglierla. Questa scoperta è preziosa perché prima si individua il Parkinson meglio lo si può trattare ma apre anche a nuove domande. Cosa succede se un algoritmo ci dice che forse siamo malati quando non abbiamo ancora nessun sintomo evidente? Come cambiano le nostre scelte, la nostra ansia, il nostro rapporto con la medicina e con noi stessi? E se un giorno queste tecnologie saranno accessibili da smartphone? Perché no? Magari integrate in una semplice app vocale, chi controllerà l’uso di questi dati?
Per ora siamo in una fase di ricerca ma quando l’intelligenza artificiale inizia a fare diagnosi la medicina cambia e cambiamo anche noi. E non è l’unico esempio. Altri team in Italia stanno sviluppando intelligenza artificiale per il Parkinson ma su dati motori e sensoriali come il passo, l’equilibrio o la stabilità nei movimenti usando smartphone e sensori indossabili. La voce però resta un confine speciale. Ci riguarda da dentro. La voce come specchio del cervello.
La parola come test neurologico. La tecnologia ancora una volta entra in territori intimi, profondi, delicati e una volta tanto ascolta. In questo ascolto, analitico, spietato, potenzialmente salvifico, si gioca il futuro della diagnosi precoce. Se qualcosa vi ha colpito o infastidito, scrivetemi a idonatio@gmail.com. Le domande più belle, come sempre, arrivano da chi ascolta.
