Il prossimo 18 e 19 dicembre si terrà a Bruxelles l’ultimo Consiglio europeo del 2025. Un anno, quello che sta per volgere al termine, che è stato davvero disruptive – dirompente – per usare una espressione cara a Schumpeter.

L’Unione europea si è ritrovata nel pieno di una burrasca globale: dall’insediamento alla Casa Bianca del Presidente Donald Trump alla nuova strategia commerciale americana, passando per il conflitto in Medio Oriente sino alla guerra in Ucraina che, nonostante gli sforzi internazionali, ancora non trova una tregua. Se volessimo fare un bilancio, potremmo dire che la barra – per lo meno in termini di princìpi – è rimasta dritta. L’Ue ha saputo, nonostante le fratture interne, restare salda sul sostegno all’Ucraina nonché coesa nelle trattative con gli Usa sui dazi, e decisa, infine, nell’improntare nuovi accordi di libero scambio con Paesi e regioni emergenti, nell’ottica di una reale diversificazione. Oggi però i nodi giungono al pettine. Si rischia di incorrere nell’errore di predicare bene ma razzolare, poi, male.

Al vertice dei 27 si dovrà innanzitutto trovare l’intesa sulla spinosissima questione dei beni congelati russi. L’Alta rappresentante Ue per gli Affari esteri, Kaja Kallas, non demorde. “Non lasceremo il vertice prima di aver ottenuto un risultato”, ha affermato. La matematica non è un’opinione: occorrono 90 miliardi per finanziare l’Ucraina per i prossimi due anni. Bruxelles vuole utilizzare gli asset russi congelati ma, se prima soltanto il Belgio pareva contrario, ora anche altri Paesi – tra cui l’Italia – chiedono di sondare alternative come quella, ad esempio, di uno strumento di debito comune. Per tale opzione, si sa, servirebbe l’unanimità, mentre per l’utilizzo dei beni congelati di Mosca basta la maggioranza qualificata. È il punto di svolta: l’uso dei beni congelati suscita perplessità giuridiche? Può darsi, ma forse – ora – se l’Ue è davvero pronta a fare tutto il necessario per sostenere la libertà e la sovranità di Kyiv vale la pena correre il rischio. D’altronde, utilizzare gli asset russi, oltre ad esser un’operazione che non pesa sulle casse europee, è un monito evidente: l’invasore paga e risarcisce per le sue azioni.

Il finanziamento all’Ucraina è centrale anche per la questione della sicurezza europea. Dal palco di Atreju, il presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha ribadito “la necessità di creare finalmente una colonna europea della Nato” perché “la pace non si costruisce con le canzoni di John Lennon, si costruisce con la deterrenza”. Parole sante. E allora occorre coraggio e davvero – sul tema della Difesa – ritrovare lo spirito europeo dei fondatori e mettere a terra un Piano comune al più presto.

Se vuole essere all’altezza dei suoi alleati, in primis degli Stati Uniti, l’Ue non abbia timore e sfidi l’opinione pubblica e i venti contrari. Scelga, anche drasticamente se necessario. Di certo, restare immobilizzata in dubbi esistenziali non sarà la soluzione. Ne va della nostra credibilità. Il documento sulla Strategia di sicurezza statunitense a firma del Presidente Trump, in fondo, è così diverso da quel “Do something!” del Presidente Mario Draghi rivolto all’Eurocamera? Oltre la forma, se guardiamo alla sostanza, sono due allarmi, due sveglie all’Ue, affinché si scrolli di dosso quel senso di inferiorità e quei perenni tentennamenti e compia il suo aut-aut.

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Classe 1998, nata sotto il segno del cancro. Veneta, al momento a Roma. Seguo la politica estera e le cronache parlamentari. Tennista a tempo perso, colleziono dischi in vinile e li ascolto rigorosamente davanti a un calice di rosso. Kierkegaard e Nozick due grandi maestri.