Politologo e islamologo di fama mondiale, Olivier Roy è una delle voci più autorevoli nello studio del rapporto tra religione e politica nel mondo arabo-musulmano. Già docente all’European University Institute di Firenze, è autore di numerosi saggi tradotti in tutto il mondo. Il suo ultimo libro, Appiattimento del mondo. La crisi della cultura e il dominio della norma (Feltrinelli, 2024), indaga la perdita di profondità del pensiero contemporaneo e la crisi dell’universalismo occidentale.
Firmato il cessate il fuoco, si procede ora sui venti punti del negoziato di pace: qual è, a suo giudizio, la vera posta in gioco di questa fase?
«A ogni fase l’accordo può inciampare, perché i protagonisti non hanno la stessa visione del futuro. Hamas gioca la propria sopravvivenza, mentre Israele dovrebbe rinunciare esplicitamente all’annessione della Striscia di Gaza, cosa che contraddice la volontà dell’attuale governo. La domanda è: a quale punto del piano queste contraddizioni emergeranno, spingendo una o entrambe le parti ad accusare l’altra di non rispettare l’intesa? Poiché non esiste né fiducia né consenso sugli obiettivi finali, l’accordo presuppone una pressione costante di Trump su entrambe le parti. La questione è se Trump sia disposto a impegnarsi nel tempo, o se si accontenterà dell’effetto annuncio, soprattutto se non dovesse ottenere il Nobel per la Pace».
Hamas sembra oggi dividersi: la sua ala politica si mostra aperta alla trattativa mentre quella militare resiste. Si tratta di una frattura tattica o strategica?
«È una frattura strategica. L’applicazione del piano implica la scomparsa dell’ala militare, cioè la rinuncia alla lotta armata, mentre la componente politica – al sicuro in Qatar e di fatto protetta dagli Stati Uniti – può sperare di sopravvivere all’interno di un futuro Stato palestinese».
In questo contesto, Marwan al-Barghouti può diventare una figura di mediazione o resta un simbolo del passato?
«Nel deserto politico in cui si trovano oggi i palestinesi, con un Hamas accerchiato e un’Autorità nazionale palestinese screditata, ogni “jolly” è buono. Ma saranno probabilmente gli israeliani i più restii a lasciare a Barghouti un ruolo, perché questo potrebbe dare credibilità all’idea di uno Stato palestinese che non vogliono».
Fatah e Hamas politico possono tornare a dialogare per rappresentare con una sola voce la Palestina sulla scena internazionale?
«Possono fingere di riavvicinarsi per restare credibili e impedire che Israele chiuda definitivamente la porta alla prospettiva di uno Stato palestinese. Ma concretamente non credo in una vera cooperazione: ciascuno cercherà di screditare l’altro».
Se la pace prendesse forma, quali conseguenze avrebbe sulla politica interna israeliana? Gli estremisti resteranno ai margini o troveranno nuovi spazi?
«Gli estremisti religiosi, che hanno ampliato la loro base popolare, non rinunceranno al progetto del “Grande Israele”: attenderanno che il piano fallisca e faranno di tutto perché accada. Non possono più essere marginalizzati, perché l’opinione pubblica si è radicalizzata, anche se oggi desidera la pace. Nel lungo periodo, però, il sentimento anti-palestinese resta dominante. Gli estremisti giocheranno sul tempo: dal 1948 a oggi, il progressivo smantellamento dei territori palestinesi è stato continuo».
Può nascere in Israele una maggioranza ampia e trasversale per accompagnare la transizione verso una nuova fase politica e civile?
«No. La società israeliana è più divisa che mai, e la frattura non è più tra chi vuole due Stati e chi vuole l’annessione. La maggioranza diffida dei palestinesi. Il vero scontro oggi è tra nazionalisti laici e nazionalisti religiosi: una questione interna – mobilitazione degli haredim nell’esercito, ruolo della Halakhah nella vita pubblica – più che geopolitica».
Mentre Israele teneva saldamente il punto, le società europee si sono sgretolate, divise tra simpatie pro-Hamas, paure e negazioni. Come ne esce l’Europa, sul piano morale e poi politico-diplomatico?
«La mobilitazione pro-Gaza in Europa è paradossale: riguarda una questione di politica internazionale, mentre le opposizioni “di sinistra” faticano a mobilitare la piazza sui temi di politica interna. In Italia, le manifestazioni pro-Gaza raccolgono più persone di quelle “antifasciste”. Certo, in molti casi ci sono secondi fini politici, ma la tendenza prevalente è quella di una protesta morale, su base umanitaria. Questo rivela molto sulla crisi della politica in Europa».
Le relazioni tra Europa e Israele devono ripartire da zero. L’attenzione sull’antisemitismo deve tornare ai massimi livelli. Serve una nuova educazione civica, anche digitale, di massa…
«Combattere l’antisemitismo con una pedagogia autoritaria non funzionerà, soprattutto se le autorità continueranno a identificare antisemitismo e antisionismo. È vero che c’è una recrudescenza dell’antisemitismo, che va combattuta, ma senza mettere ogni critica a Israele sotto la stessa etichetta. Occorre separare, da entrambe le parti, la dimensione religiosa da quella politica. Anche perché la diaspora ebraica è sempre più divisa rispetto agli eventi in Israele. I nazionalisti religiosi israeliani, inoltre, sono spesso indifferenti o critici verso la diaspora, accusata di non fare aliyah. In breve: bisogna difendere e proteggere i cittadini ebrei europei, indipendentemente da ciò che accade in Israele o in Palestina».
