La rovina della Libia è una questione mediterranea, cittadini ostaggio del traffico di esseri umani, di armi e di droghe

La Libia non è un piccolo Paese alla ricerca di un posto nel mondo, ma un territorio vastissimo, simile per estensione a un continente. Un Paese con oltre quattromila chilometri di frontiere terrestri, condivise con sei Stati, e una popolazione che non supera i sette milioni di abitanti.

In questa sproporzione si nasconde la chiave per comprendere molte delle fragilità strutturali del Paese, e anche una parte importante del fenomeno migratorio che oggi investe l’Europa. Il vero problema libico non è solo politico o economico. È prima di tutto geografico e umano: come può una popolazione così ridotta gestire, proteggere e sviluppare una terra tanto vasta, frammentata e vulnerabile? Le politiche adottate dallo Stato libico, dall’epoca di Gheddafi fino ad oggi, non hanno mai costruito un equilibrio territoriale. Al contrario, hanno favorito uno sviluppo centralizzato, lasciando le regioni interne e meridionali senza infrastrutture, servizi sanitari, scuole, opportunità di lavoro. Ciò ha provocato un esodo silenzioso ma costante: dalle zone rurali verso le città, e da sud verso nord. In molti casi, addirittura dalle città meridionali verso la costa, in cerca di condizioni minime di sopravvivenza.

Crescita demografica al palo

A tutto questo si aggiunge un altro dato preoccupante: la crescita demografica in Libia è tra le più basse della regione, nonostante l’enorme disponibilità di territorio e risorse. Non esistono politiche abitative stabili, né incentivi reali per i giovani a costruire il proprio futuro nel Paese. La sfiducia verso le istituzioni e l’incertezza cronica hanno reso l’emigrazione una via d’uscita, più che una scelta. Anche lungo la fascia costiera – da Emsaed, al confine con l’Egitto, fino a Ras Jdir, al confine con la Tunisia – si notano ampie zone disabitate o urbanizzate in modo caotico, senza una logica di coesione territoriale. Più ci si allontana dal centro, più si entra nel vuoto. Ma la sfida più critica è al sud, dove la Libia si apre su una delle zone più instabili del continente africano. Le sue frontiere meridionali, affacciate sul Sahel, sono diventate passaggi obbligati per le reti del traffico di esseri umani, di armi e di droghe.

Perché la Libia è un problema mediterraneo

La Libia è oggi un territorio di transito, più che uno Stato sovrano. E questa fragilità non è solo un problema libico: è un problema mediterraneo, europeo, globale. Il deterioramento del tessuto demografico e la fuga dalle aree agricole hanno portato anche al declino della produzione locale, al collasso di interi settori tradizionali, e all’aumento della dipendenza dal petrolio. Un Paese che un tempo poteva nutrirsi da solo, oggi importa gran parte dei suoi beni essenziali, mentre vaste aree coltivabili vengono abbandonate al deserto e all’erosione.
Questa non è solo una crisi interna. È un grido d’allarme che riguarda tutta l’area euromediterranea. Se la Libia continua a svuotarsi, a indebolirsi, a frammentarsi, non potrà mai diventare un partner stabile né un argine efficace alle crisi migratorie, ambientali o di sicurezza. I libici oggi non chiedono carità, né interventi esterni calati dall’alto.

Chiedono una vera cooperazione che aiuti il Paese a ricostruire il suo sistema istituzionale, a rafforzare la presenza dello Stato nei territori marginali, e a dare ai suoi cittadini la possibilità di restare, vivere e contribuire. Una Libia stabile, ben amministrata e coesa è nell’interesse dell’Europa. Non basta gestire le frontiere: bisogna ricostruire le condizioni perché queste frontiere abbiano un senso. E questo non sarà possibile senza riconoscere che la Libia è una “piccola Africa” con responsabilità enormi e capacità limitate.