È finita male, malissimo. Putin ha di fatto rotto con l’Occidente mettendo a dura prova il rapporto con Trump, dopo aver incassato il successo dell’incontro ad Anchorage, in Alaska, venerdì scorso. Ieri ha fatto sapere a Zelensky di essere pronto a incontrarlo, ma a Mosca, nella tana del nemico che da tre anni manda sicari a Kyiv. Zelensky ha rifiutato. Purtroppo va detto, almeno per scaramanzia, che in questa settimana non è successo nulla di buono, malgrado le vigorose strette di mano, i tappeti rossi, l’abbondanza di ringraziamenti e sorrisi a partire dal vertice di Anchorage fra Trump e Putin fino alla promettente scampagnata degli europei al seguito di Zelensky alla Casa Bianca. Tutto bene, salvo la catastrofe. Restano alcuni elementi di colore memorabili come il fatto che stavolta Zelensky abbia abbandonato la tuta militare e si sia “dressed up” (come ripetevano i commentatori televisivi) vestendo un completo nero di buon taglio (“Guardatelo, com’è elegante!”, ha esclamato il presidente americano).
Trump marcato dal Cremlino
Trump, malgrado lo sforzo di mostrarsi sempre ottimista e pieno di orgoglio perché “mai la Casa Bianca ha avuto tanti ospiti tutti insieme”, è stato sempre teso, eccessivo come e più di sempre perché non poteva che assecondare gli eventi e gli interventi, ben sapendo che tutto ciò che accadeva era visto in diretta a Mosca da Vladimir Putin. Lo stesso Putin che venerdì gli aveva chiarito i termini della guerra ucraina: nessun cessate il fuoco, l’Ucraina deve parlare russo, essere disarmata, neutrale e sottomessa. Lunedì pomeriggio Donald Trump ha dovuto umiliarsi e annunciare pubblicamente che è saltato tutto. Secondo quanto trapela attraverso le gole profonde, Putin ha avuto un secco alterco telefonico con Trump quando quest’ultimo gli aveva detto ciò che già si sapeva: gli europei sono con Zelensky, rifiutano di legalizzare la spartizione dell’Ucraina, e vogliono stringere alleanze militari con la nuova Ucraina per intervenire automaticamente nel caso di una terza aggressione. È stato allora, – quando Trump gli ha confermato che gli europei volevano garantire una protezione militare della futura Ucraina– che Putin gli ha ripetuto il suo veto, ma irritato e deluso perché a fargli la proposta indecente era lo stesso Trump, che ad Anchorage sembrava aver capito e adesso gli comunicava l’inaccettabile.
Chiusa la telefonata con il Presidente americano, Putin ha chiamato Lavrov (il ministro degli Esteri che si è presentato ad Anchorage indossando una felpa con la scritta CCCP) e ha dettato un comunicato uscito quando il summit della Casa Bianca era già nei titoli della stampa occidentale. Questo è il tono: “Mai e poi mai i Paesi della NATO saranno autorizzati a garantire la sicurezza della futura Ucraina. Sembra che il concetto non sia stato ben compreso da Stati Uniti ed Europa”. Dopo la fine della cena in cui Trump ha manifestato la sua felicità per i risultati raggiunti, c’è stato un giro di ringraziamenti e repliche di tutti i partecipanti, dal segretario generale della Nato Rutte, al Presidente francese Emmanuel Macron, fino all’inglese Starmer e a Giorgia Meloni, hanno tutti ribadito di essere al fianco di Kyiv e di voler formare una catena di alleanze per proteggere l’Ucraina del dopoguerra.
Nessuna flessibilità russa
Tutti, durante quel simposio trasmesso in mondovisione, erano consapevoli di camminare sul ghiaccio sottile manifestando totale fiducia nella ritrovata unità con gli Stati Uniti. C’era allegria, però aleggiava– invisibile ma presente – il convitato di pietra Vladimir Putin. Trump sorrideva e applaudiva tutti, anche il Primo ministro inglese Starmer, che ha detto: “E’ fondamentale che abbiano deciso di proteggere l’Ucraina insieme agli Stati Uniti ed è ora che Putin si decida ad incontrarsi faccia a faccia il presidente Zelensky”. Ieri Putin ha con poco pudore proposto Mosca come luogo di incontro. Ovviamente Zelensky ha rifiutato: l’idea di portare a Mosca il capo dell’esercito nemico e del Paese invaso dà la misura, semmai ce ne fosse bisogno, del cinismo del Presidente russo. Oggi, questo sembra l’epilogo di un multiforme tentativo che, per avere successo, avrebbe dovuto contare su una minima flessibilità russa.
Ma questa non si è vista: Putin ha staccato la spina perché si è sentito proporre una protezione occidentale, cioè di Paesi che fanno parte della Nato, sostenuta per prima dalla premier Giorgia Meloni per impedire che la Russia possa tentare di prendersi tutta l’Ucraina in un boccone. Quando tutti i vertici sono finiti e i leader europei sono tornati a casa sicuri di avere compiuto un piccolo ma concreto passo avanti, solo allora, fuori orario, dal ministero degli Esteri russo è uscito – secco, anzi furioso- il comunicato in cui si chiude seccamente la possibilità di garantire i confini dell’Ucraina dopo la fine delle ostilità. Chi dovrebbe o potrebbe farlo, secondo Putin, che si era detto inizialmente favorevole alla questione delle garanzie? Lo zar lo aveva detto qualche settimana fa: la stessa Russia avrebbe dovuto far parte dei tutori della legalità e della pace, con l’aggiunta di alcuni Paesi vicini ai BRICS, come il Brasile, il Venezuela ed altri del gruppo dei Paesi caucasici.
