In attesa del bilaterale di domani Trump-Zelensky a Washington, è toccato ieri alla Nato tornare sul dossier russo-ucraino, “il conflitto più difficile da chiudere”, come ha detto lo stesso presidente Usa. L’incontro a Bruxelles tra i ministri della difesa dell’Alleanza atlantica ha messo bene in luce le contraddizioni che rischiano di lasciare i Paesi membri europei, da un lato, emarginati rispetto alla linea comune di Usa e Ucraina, dall’altro, esposti alle continue provocazioni russe.

Washington e Kiyv infatti la vedono allo stesso modo. Inaspettatamente, visti i trascorsi di qualche mese fa. La posizione condivisa sui missili da crociera Tomahawk è la conclusione pragmatica di due visioni di poco differenti sulla conduzione del conflitto. Ancora ad agosto, fallito l’incontro con Putin, Trump scriveva su Truth: “È difficile vincere una guerra senza attaccare”. Il New York Times ieri ripotava il pensiero dei vertici militari ucraini, convinti che i russi si possono piegare solo una volta che il conflitto si porta a casa loro. È una prospettiva da falco, questa, che la Nato non può permettersi. L’Alleanza infatti non contempla operazioni di attacco. Parole di fuoco come quelle dell’ex comandante delle forze americane in Europa, Ben Hodges, non sono contemplate nel gergo militare europeo.

«In caso di guerra con la Russia, la Nato distruggerà Kaliningrad e Sebastopoli nelle prime ore del conflitto». Nessuno dei nostri comandanti potrebbe permettersi una simile previsione. Realistica in termini operativi, è vero, ma destabilizzante, dal punto di vista politico. Ecco perché, ieri, Rutte ha non ha commentato la questione dei Tomahawk, bensì ha detto chiaramente che «la Nato non estenderà l’Articolo 5 ai paesi dell’Indo-Pacifico». Espandere l’ombrello protettivo dell’Alleanza vuol dire esporla a ulteriori minacce. Magari della stessa origine di quelle attuali. Si pensi al Caucaso. Rutte ha mantenuto comunque un atteggiamento di ottimismo e accondiscendenza alle volontà di Washington. “Daddy!” Così il segretario generale Nato si era rivolto a Trump alla plenaria di fine giugno dell’Aia. Solo con un po’ meno verve, ha accolto il Segretario alla guerra, Pete Hegseth, riconoscendo la leadership degli Usa nell’Alleanza e nella conduzione della guerra in Ucraina. Hegseth non si è comunque risparmiato dal darci degli “scrocconi”. Ottimismo, sì, ma di facciata, che nasconde tre criticità.

Come si diceva, la Nato gioca in difesa. Può rifornire l’esercito ucraino, può «rafforzare la sua postura di deterrenza». Ma non le è concesso altro. Tant’è che il numero uno dell’Alleanza ci ha tenuto a sottolineare che «gli episodi dei droni hanno messo in evidenza l’efficacia della nostra postura di deterrenza e difesa, fornendo al contempo un ulteriore impulso a migliorarla». Per Rutte l’innovazione è l’unica strada per «la sicurezza del territorio degli Alleati». La sicurezza, per Washington e Kyiv invece, sta nel rispondere al fuoco nemico. Anzi, anticiparlo.

C’è poi un discorso di numeri. Rutte porta in dote agli Usa la validità del Purl, la “Lista prioritaria delle esigenze dell’Ucraina” (Prioritised Ukraine Requirement List), a cui hanno aderito otto stati membri (Belgio, Canada, Danimarca, Germania, Lettonia, Paesi Bassi, Norvegia e Svezia) e che permette di fornite a Kyiv «le armi statunitensi di cui ha davvero bisogno per proteggere la sua popolazione e mantenere la linea del fronte». Tuttavia, il Kiel Institute di Berlino fa notare che gli aiuti militari all’Ucraina sono calati del 57%, tra luglio e agosto rispetto al periodo gennaio-giugno di quest’anno. Ed è vero che i sostenitori del Purl hanno stanziato un totale di 1,9 miliardi di euro. Ma si tratta di denaro che va a svincolare armi provenienti dagli arsenali statunitensi di stanza in Europa. Quindi un ulteriore trasferimento di risorse finanziarie dall’Europa agli Usa, che nulla ha a che fare con un vero piano di riarmo europeo.

Infine la questione politica. Non tutti i governi membri della Nato condividono il “Rutte pensiero”. Il presidente polacco Nawrosky e con lui il leader ungherese Orbàn e Andrej Babiš, che ha appena vinto le elezioni in Repubblica ceca e presto ne diventerà premier, sono, si sa, per una linea di appeasement con Putin e schiettamente contrari ai programmi di aumento delle spese militari. Di fazione opposta, ma sulla stessa lunghezza d’onda, lo spagnolo Sanchez. Di nuovo vittima delle minacce di Trump, che si è esposto col paventare una Spagna espulsa dalla Nato qualora non rispettasse le politiche comuni di riarmo. Va detto che l’espulsione non è prevista nel trattato del Nord Atlantico.
«La sicurezza dell’Ucraina è legata alla nostra sicurezza», ha detto Rutte. Per come stanno andando le cose, è vero il contrario.