La verità di Albertini: “Così governai senza avvisi di garanzia”

Se questo Rivoglio la mia Milano, conversazione di Gabriele Albertini con il giornalista Sergio Rotondo (editore De Ferrari) fosse solo il resoconto dei veri miracoli compiuti dal migliore e più amato sindaco di Milano, basterebbe mettere in fila i suoi successi, che sono stati veramente strepitosi. Non li trascureremo, Gabriele se lo merita. Ma questo è un libro sulla giustizia e sui magistrati. Potremmo già farcene un’idea leggendo quel che lui dice all’amico giornalista a pagina 139. “La Repubblica italiana ha affidato a 10.000 vincitori di un concorso l’infallibilità, che vuol dire onnipotenza e irresponsabilità a vita”. Poi spunta l’imprenditore lombardo: “Sai che non hanno neanche un budget? Un pubblico ministero può spendere illimitatamente quello che vuole senza che qualcuno posso dirgli alcunché”. Poi fa un passaggio sulla modifica dell’articolo 68 della Costituzione con cui nel 1993 il Parlamento ha fortemente ridotto l’immunità parlamentare e conclude che “qualsiasi pubblico ministero che vuole fare carriera fa le sue indagini esplorative e poi se trova qualcosa…”. Più di così…

Però il capitolo da cui abbiamo tratto la pagina 139 è intitolato “Il rovescio della medaglia” ed è sostanzialmente dedicato all’ex procuratore aggiunto di Milano Alfredo Robledo, la bestia nera di Albertini, quello con cui ha (con molte ragioni) un conflitto eterno e inconciliabile fin dai giorni in cui il magistrato aveva preso di mira il sindaco con le accuse sugli “emendamenti in bianco” alla delibera di bilancio del Comune, e poi con la vicenda dei “derivati” (finanziamenti con clausole ritenute vessatorie sottoscritti da palazzo Marino con alcune banche), finché poi fece giustizia il procuratore Bruti Liberati, che a sua volta teneva in cassaforte le proprie dimenticanze. Tutta una vicenda che abbiamo già raccontato e che consente oggi all’ex sindaco di dire “Da quel momento è cambiato il mio rapporto con la magistratura”. Ed è vero, se fossimo distributori del bollino blu del garantismo, non potremmo certo rifiutarlo a uno come Gabriele Albertini. Ma rimane quel titolo “Il rovescio della medaglia”, che presuppone l’esistenza del lato più brillante della moneta, quello di valore, quello della magistratura “giusta”. Che in questo caso ha l’effigie di Saverio Borrelli e dei suoi colleghi del pool che si fece chiamare “Mani Pulite”.

Quattro depuratori, la centrale elettronica computerizzata per il controllo del traffico, restauro e ristrutturazione del teatro alla Scala, il passante ferroviario, il polo di Rho della Fiera di Milano, l’inaugurazione di otto stazioni della metropolitana, 108 parcheggi. E poi il grande progetto della realizzazione della fibra ottica e il cablaggio di tutta Milano. Questo è stato il sindaco Gabriele Albertini. Ma c’è un “ma” che dal libro emerge come un fastidioso ma enorme foruncolo: Francesco Saverio Borrelli. Avrebbe potuto un sindaco eletto dal centrodestra e scelto personalmente da Silvio Berlusconi avviare e realizzare un programma di privatizzazioni e di projet financing nel settore pubblico, oltre che la possibilità di acquisire capitali da tutto il mondo, senza l’autorizzazione di quella Procura della repubblica che nel 1997, quando Albertini sbarcò a Palazzo Marino, era reduce dall’aver distrutto per via giudiziaria i cinque partiti di governo e la storia politica dell’intero dopoguerra?

Albertini sa bene in quei giorni che la globalizzazione (ma anche il programma liberale su cui i cittadini lo hanno votato) gli impone di “allargare la partecipazione ai nostri progetti dell’enorme forza dell’economia privata, e non solo milanese e italiana”. Sa anche che i suoi progetti e la conseguente mole di gare d’appalto devono essere ineccepibili, privi di sbavature o ombre. Capisce che ha bisogno di un alleato forte, qualcuno che gli consenta di lavorare senza mettergli i bastoni tra le ruote. Sa di avere sulle spalle un fardello pesante che si chiama Silvio Berlusconi. E un altro che è la sua provenienza confindustriale. Due mondi considerati delinquenziali a prescindere, in qualche ambiente di Palazzo di Giustizia. Deve farsi perdonare i suoi due abiti, quello dell’imprenditore di centrodestra e quello dell’amico scelto personalmente da Berlusconi. Agisce con intelligenza e astuzia. Intanto, lo dice lui stesso, la persona è sufficientemente forcaiola per ammirare il lavoro di pulizia etnica svolto negli anni 1992-93. E lo fa sapere nell’ambiente giusto. Ma anni e anni di trattative sindacali gli hanno anche insegnato la capacità di coinvolgere, di lusingare. Là nel Palazzaccio di corso di Porte Vittoria paiono non aspettare altro. Arrivano in visita dal sindaco, prima Borrelli, poi Davigo e Colombo. Quest’ultimo è quello che osa di più e propone una propria diretta collaborazione all’interno dell’amministrazione comunale. Gratuita, certo, ma intanto il dado è tratto. La Procura partecipa al governo della città.

“Senza il loro aiuto – dice oggi Albertini- sono convinto che non avremmo potuto fare quello che siamo riusciti a fare, cioè spendere sei miliardi di euro, di cui più di tre come commissario alla depurazione, al traffico ai trasporti e alla viabilità, e altri tre come giunta e non avremmo potuto far arrivare gli oltre trenta miliardi di euro – capitali di investitori privati – senza un avviso di garanzia, ripeto senza un solo avviso di garanzia”. Il capitolo delle confessioni viene definito dallo stesso sindaco come “posizione molto giustizialista, perfino giacobina”, pur se giustificata, secondo il suo parere, “dopo tangentopoli” e tutto quel che era successo in quegli anni. Fatto sta che il primo cittadino di Milano chiede e ottiene dai procuratori di “avere accesso alla parte riservata dei loro fascicoli, quando ancora l’avviso di garanzia non era stato formulato”, poi crea un gruppo di lavoro interno al Comune, costituito tra tre funzionari e tre magistrati e lo chiama “gruppo Alì Babà”, con esplicito riferimento ai quaranta ladroni. Da lì la sua strada è tutta in discesa.

Risolve il problema degli appalti e delle possibili degenerazioni con la stipula di “Patti di integrità” che vincolavano coloro che avessero derogato all’impegno a non partecipare in seguito a nessun’altra gara nella zona di Milano. E intanto all’interno di Palazzo Marino prendevano piede due nuovi istituti, il Direttore generale per il controllo formale di legalità e l’Internal auditing, con il compito di valutare la correttezza economico-finanziaria di ogni atto. La storia è un po’ questa. Cui si possono aggiungere due aneddoti. Il primo ha come protagonista il sindaco Beppe Sala, che nel suo primo mandato fu travolto da una sorta di tangentopoli nei lavori di Expo e chiese ad Albertini come lui fosse invece riuscito a passare indenne dalle forche caudine della magistratura. Ovvio, gli rispose sornione il “collega”, ma tu non hai fatto i “Patti di integrità?” E il povero Sala non sapeva neanche che cosa fossero. L’altro riguarda Saverio Borrelli che un giorno si offese con Albertini e lo accusò di doppiogiochismo, tanto da dare buca a un invito a colazione già fissato.

Perché? Solo perché il sindaco, nelle conclusioni dei lavori agli Stati Generali, aveva fatto qualche battuta su tangentopoli che i giornali si erano permessi di interpretare come critiche. Albertini allora rispolverò i suoi studi dai padri gesuiti e con un’abilissima lettera ristabilì il rapporto. Resta il fatto però che il procuratore di Milano non aveva tollerato il fatto che quello che considerava una sua creatura al punto da dichiarare pubblicamente di averlo votato (con voto disgiunto, fosse mai che qualcuno lo sospettasse di intelligenza con il nemico Berlusconi) nel suo secondo mandato, potesse “tradire” lui e i suoi metodi di politica giudiziaria. Allora, caro Gabriele, sei ancora sicuro che esistano un dritto e un rovescio della stessa medaglia?