L’odierno dibattito sulla necessità di stabilire o meno un “salario minimo” per i lavoratori ha riportato all’attenzione dell’opinione pubblica l’annosa questione dei salari italiani, la cui crescita in termini reali è oramai da decadi pressoché nulla. Tale stagnazione va collegata principalmente, nel nostro paese, alla mancata crescita della produttività del lavoro, ovvero la grandezza che mette in rapporto i risultati del processo produttivo (output) con gli input dello stesso (materie prime, lavoro, macchine), le cui cause sono molteplici: la ridotta dimensione media delle nostre imprese, la natura “labour intensive” della nostra industria di punta (il tessile), la scarsa percentuale di laureati presente nella nostra forza lavoro. La questione cruciale è, però, con tutta probabilità quella legata al modello di contrattazione collettiva in vigore nel nostro paese.
Come detto, la produttività è un indicatore dell’efficienza di un processo produttivo, l’incremento della stessa consente di aumentare la differenza tra output ed input, ovvero il reddito nazionale ed a consentire una maggiore creazione di ricchezza da distribuire poi ai due fattori produttivi: lavoro e capitale. Il modello contrattuale italiano prevede due livelli: al primo (contratti nazionali di categoria) è demandato di adeguare i salari al costo della vita e quindi lo stesso concorre unicamente al mantenimento del potere d’acquisto reale degli stessi, al secondo (contrattazione decentrata aziendale o territoriale) è richiesto di aumentare i salari in maniera corrispondente all’incremento di produttività registrato, in modo da mantenere costante la quota di reddito nazionale destinata ai lavoratori.
Il grande problema però è che la contrattazione di secondo livello è rimasta sostanzialmente al palo e copre una quota di lavoratori pari più o meno al 30% della forza lavoro del nostro paese; tutto ciò ha fatto sì che la distribuzione del reddito nazionale si spostasse (automaticamente) sempre più a favore del capitale, come certificato dai dati ISTAT che registrano come questo meccanismo disfunzionale sia costato al reddito da lavoro in media 37 miliardi all’anno nel periodo che va dal 1993 (anno di introduzione del nuovo modello contrattuale) al 2016. Tutto ciò non può che riversarsi prepotentemente nell’agone politico: le difficoltà del ceto medio hanno favorito l’ascesa dei populisti e minato quella coesione sociale fondamentale per la stabilità delle democrazie occidentali. Occorre, dunque, pensare a delle soluzioni: detassare gli utili distribuiti dagli imprenditori ai lavoratori è sicuramente un passo avanti nella giusta direzione.
