Il lavoro fonte di benessere, di crescita individuale, di potere sociale, ricchezza delle nazioni, motore della storia, elemento identitario, espressione di incomprimibile individualismo. Sempre e comunque elemento che in sé garantisce condizioni di vita dignitose, prospettive di crescita e di riscatto, possibilità di futuro per sé e la propria famiglia. È l’idea che abbiamo del lavoro. Un’idea sempre più distante dalla realtà. È quanto si deduce dalla lettura del rapporto conclusivo del Ministero del Lavoro sugli “interventi e le misure di contrasto alla povertà lavorativa in Italia”, presentato nei giorni scorsi e diventato la base di confronto tra governo e parti sociali.
Il documento nell’analizzare la situazione italiana evidenzia una situazione in netto peggioramento. Un occupato su dieci si trova in condizioni di indigenza e per uno su quattro il reddito percepito lo colloca ai margini inferiori della scala retributiva. Alla povertà salariale si aggiunge spesso quella qualitativa e organizzativa del lavoro, la condizione sociale e quella familiare. Maggiormente penalizzati i giovani, le donne, i lavoratori discontinui e autonomi. Quella della task force del governo è una rappresentazione cruda di una realtà denunciata da tempo sia dalla politica, che dalle forze sociali, peggiorata in questi anni di pandemia, ma quasi sempre usata più come elemento di propaganda che come sprone a intraprendere reali azioni di contrasto alla povertà nel e del lavoro.
Le responsabilità della politica sono grandi. Da oltre vent’anni la legislazione, a prescindere dal colore delle maggioranze, persegue flessibilità, deregolamentazione, libertà contrattuale, autonomia della prestazione lavorativa. Riforma dopo riforma sono state smantellate le garanzie legislative a favore del lavoro. Si è consentita una malleabilità tale delle regole che il mercato del lavoro oggi vive letteralmente in un caos di norme e forme contrattuali. Sono stati penalizzati i giovani, i disoccupati e i futuri occupati che hanno pagato il prezzo più alto di riforme sbagliate, tese più a limitare un presunto potere sindacale che a rendere moderno ed efficiente il mercato del lavoro. Ugualmente colpevole il sistema delle imprese che in questi anni ha continuato a usufruire delle normative per comprimere i costi, scaricando quello del lavoro sulla collettività, per aumentare i profitti e dirottare le risorse create alla finanza più che agli investimenti.
Altrettanto gravi le responsabilità del sindacato. Non solo è stato incapace di allargare la sua sfera di influenza e tutela alle nuove modalità del lavoro, o di essere minimamente attraente per i lavoratori della gig economy, ma ha subito arretramenti negli insediamenti tradizionali della media e grande impresa e dell’impiego pubblico, tanto che oggi, anche nei settori dove maggiore è la sindacalizzazione, siamo in presenza di una forte crisi di rappresentanza, di una drammatica questione salariale, dell’assenza di politiche contrattuali, di una quasi totale mancanza di controllo sull’organizzazione del lavoro e sulle scelte d’impresa a livello aziendale e di settore. A parte qualche tentativo passato di elaborazione di una strategia di contrasto – il “Piano del Lavoro” o la “Carta dei diritti fondamentali dei lavoratori” proposti dalla Cgil contro il “jobs act” – il sindacato pare oggi chiuso in sé stesso, incapace di leggere una realtà economica, sociale, addirittura psicologica, profondamente cambiata, ininfluente sulle grandi scelte economiche e politiche.
Si pensi all’insistente richiesta sindacale di blocco dei licenziamenti che lo scorso anno ha occupato per mesi i tavoli ministeriali e le cronache politiche. Spacciato come indispensabile difesa dei lavoratori ipergarantiti della media e grande impresa, base associativa delle confederazioni sindacali, contro una fantomatica “macelleria sociale” che ovviamente non si è mai verificata, ha lasciato senza alcuna tutela più di un milione e mezzo di lavoratori con contratti a tempo determinato, part time, partite iva espulsi nella quasi indifferenza generale dal ciclo produttivo. L’unica vera richiesta che si è alzata forte dai leader sindacali è stata quella di ottenere dal “potere” un riconoscimento, di potersi sedere al tavolo e poter dire di aver deciso. Cosa e come è poco rilevante. Quel che sembra contare è certificazione da parte dei loro interlocutori di esistenza in vita. E dire che proposte e richieste il sindacato ne potrebbe avanzare molte e con buona probabilità di successo. A cominciare dal salario minimo, misura sempre osteggiata da Cgil, Cisl, Uil, da Confindustria e dalle altre associazioni datoriali che dalla fissazione di un minimo salariale per legge fanno discendere perdita di potere contrattuale, ma che di fronte alla situazione salariale delle fasce deboli del lavoro diventa oggi difficilmente discutibile.
Negli ultimi trent’anni il salario medio in Italia, unico paese in Europa, è diminuito del 2,9%, con una variazione minima tra il 2012 e il 2019 ma con un calo particolarmente accentuato tra il 2019 e il 2020 che ha riportato i salari italiani al di sotto dei livelli del 1990 quando l’Italia era il settimo stato europeo subito dopo la Germania per salari medi annuali. Oggi siamo al tredicesimo posto. La questione salariale è potenzialmente esplosiva. Nelle imprese di pulizia, ad esempio, la retribuzione di un lavoratore parte da un minimo di 650 € netti al mese, mentre lo stipendio medio è di 810 € (circa 6,90 € lordi all’ora), inferiore di 740 € (-48%) rispetto alla retribuzione mensile media in Italia. Si stanno creando diseguaglianze profonde tra lavoratori non solo nel reddito ma nella prestazione lavorativa, nei suoi tempi, nelle tutele, nei diritti, nelle possibilità e opportunità future, nelle speranze. Pensare di poter recuperare con i soli contratti non solo il 50% del ritardo retributivo ma l’intero gap che le differenze salariali si porta dietro, è pura fantasia. Serve il salario minimo.
Certo, questo significa che quella parte del sistema imprenditoriale che opera ai margini della legalità, che ha dimensioni insufficienti per vivere in un sistema di sana concorrenza, che compete unicamente riducendo i costi del lavoro, sfruttando la manodopera e frodando il fisco, sarà probabilmente espulsa dal mercato. Interi settori dovranno riorganizzarsi e concentrarsi. Non è un male. L’introduzione del salario minimo dovrà essere accompagnata da percorsi di reinserimento e riqualificazione dei lavoratori, da misure di sostegno, crescita e aggregazione di un sistema di imprese troppo piccolo per competere in un mercato globale ed evoluto, dal potenziamento dei sistemi di controllo dello Stato sul rispetto delle norme e dei contratti.
Per parte sua il sindacato sarà stimolato a cercare politiche contrattuali capaci di incidere maggiormente sulla produttività, sull’organizzazione della prestazione lavorativa, sulla produttività e a intervenire con più efficacia sui ritmi, sulla fatica, sulla sicurezza. Il salario minimo è però solo la punta dell’iceberg. Fissare minimi retributivi lasciando invariata la caotica situazione contrattuale e la ancor più complessa situazione normativa, servirebbe a poco. Bisognerebbe dare contemporaneamente attuazione all’articolo 39 della Costituzione, normando il riconoscimento dei sindacati e delle associazioni d’impresa, prevedendone la misurazione della rappresentanza e stabilendo le regole per la stipulazione di contratti validi erga omnes, e all’articolo 46 regolando i doveri e i poteri di informazione e gestione dei lavoratori nelle imprese. Per il governo il salario minimo è un passaggio obbligato ma anche utile ad affrontare una situazione ormai insostenibile.
In arrivo c’è la direttiva europea che, anche se non impone l’introduzione nei paesi con un’alta copertura contrattuale come l’Italia, costituisce un inevitabile nodo da scogliere. Più complicato è per il sindacato e le rappresentanze d’impresa che dell’ostilità alla sua introduzione, come abbiamo detto, non hanno mai fatto mistero e che sul riconoscimento legislativo hanno tra loro idee molto diverse. Cgil, Cisl, Uil e Confindustria dovranno essere capaci di uscire da quella letargia in cui hanno vissuto questi ultimi anni e che li ha portati alla quasi irrilevanza sociale e politica. Non è scontato che ci riescano.
