C’è un modo di attraversare il rumore che non ha bisogno di gridare per farsi ascoltare. È la calma che resiste al caos, la voce che non si impone ma scava, come acqua che trova la sua via nelle fenditure della pietra. Leone XIV ha scelto questo registro: non l’enfasi del gesto, né la cercata drammaticità dell’appello ma la coerenza di un magistero che procede sottotraccia, carsico appunto, capace di riaffiorare quando tutto sembra franare.

Nelle ultime settimane infatti non sono mancate critiche al Pontefice per la sua apparente timida moderazione di fronte ai conflitti che insanguinano il mondo, soprattutto in Medio Oriente e nella tragedia di Gaza. Si è parlato addirittura di silenzi, di prudenza eccessiva, di mancanza di condanna esplicita, come se la parola papale dovesse farsi slogan brutale per essere credibile, pronta a decretare chi ha torto e chi ha ragione. Sappiamo che oggi la politica è tornata “manichea”, divide il mondo in buoni e cattivi, crea fossati ma l’esercizio della leadership è altra cosa.  Siamo ormai proiettati a vivere un tempo impaziente, volutamente caotico e  incapace di accettare la lentezza del discernimento, che confonde la complessità con l’ambiguità e pretende che la diplomazia morale si pieghi ai ritmi dei talk show e del post social facile che ci consegna una geopolitica da tastiera insopportabile e foriera di danni più che benefici.  In altre parole,  non è l’accumulo di parole urlate che genera la pace: si può essere operatori di pace anche nel silenzio paziente quando si sceglie la profondità al posto della visibilità.  Qualcuno ha riesumato paragoni forzati con Pio XII, quasi a voler riaprire l’eterno processo ai silenzi della Chiesa. Nella il-logica mediatica contemporanea bisogna sempre appartenere a una curva, prendere posizione dentro una tifoseria contro l’altra chiudendo ogni spazio “terzo” di mediazione, quello dove la parola può ancora avvicinare invece di dividere. Ma leggere Leone XIV in questa chiave significa fraintendere scioccamente il respiro stesso del suo magistero. Egli non è uomo di omissioni, ma di gesti misurati; non tace per timore, ma per custodire la possibilità di parola in un mondo che parla troppo e ascolta poco.

C’è una coerenza ferma, quasi ostinata, nel suo modo di abitare il tempo drammatico presente. Quando esorta ad avere “l’audacia del disarmo”, non pronuncia una formula retorica, ma un manifesto interiore e, insieme, un appello geopolitico puntuale. La sua è una pedagogia della pace che procede per sottrazione: meno armi, meno parole velenose, meno contrapposizioni moralistiche.

Leone XIV non contrappone il Vangelo alla realtà, ma costruisce un ponte vitale tra messaggio e coerenza morale, assumendosi una responsabilità politica di prima grandezza. Quando parla di pace lo fa da credente e da uomo del mondo insieme, e il suo linguaggio, pur spirituale, è profondamente politico. Ridurre l’appello alle coscienze a un discorso separato dal monito ai governanti è un errore di ingenuità, poiché nel suo pensiero le due dimensioni coincidono: la forza del messaggio nasce dal Vangelo stesso. Il Papa sa che la conversione, come la pace, non è mai istantanea: è un processo che si matura nella fatica del tempo.

Nel suo magistero più recente riaffiora un filo continuo: la pace può nascere sì da un armistizio, ma chiede quel “di più” cristiano che è la comunione tra i popoli. E in un’epoca che fa della sopraffazione e della logica predatoria la propria religione laica, Leone XIV osa dire che la sicurezza non può precedere la fiducia e che nessun popolo può salvarsi da solo. Nella vicenda medio-orientale la soluzione dei due popoli e due stati, mentre altri leader sono andati in letargo, il Vaticano è rimasto ancorato alle risoluzioni delle Nazioni Unite, condivise favorevolmente da tutti gli attuali pontefici inclusi Jorge Bergoglio ieri e Francis Prevost oggi, 

Il suo linguaggio non cerca il plauso facile dei social né la gratitudine delle marce oceaniche; non cede all’emotività dell’istante, ma custodisce il silenzio come gesto politico. Perché in un mondo dove tutti gridano, il silenzio diventa atto di resistenza. Non è il Papa del disincanto, ma della pazienza; non quello del “tutto e subito”, ma del “seminare e attendere”.

La sua calma nel caos è la postura di chi sa che la storia non cambia per decreto, ma per conversione lenta. In un’epoca di iperboli e clamore, il suo è un magistero che sottrae invece di aggiungere, che cerca la profondità contro la superficie, che invita a guardare le cose non dall’alto delle strategie, ma dal basso dei volti feriti.

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"l’occhio vede, la mente ordina, ma è il discernimento a stabilire il senso"