La riflessione
L’epoca delle città-mondo. La rivincita dei Comuni nel cuore della globalizzazione
La globalizzazione non è morta, con buona pace dei funerei cantori che avevano già intonato il de profundis. Vero che pandemia e relative misure di contrasto, avendo gravemente impattato sulla mobilità e sugli spostamenti di merci e persone, sembravano aver rallentato i flussi e le interconnessioni tra le varie aree del mondo, spesso accelerando percorsi di digitalizzazione dei processi produttivi, delle dinamiche sociali e relazionali. E nonostante evidenti tentativi di utilizzare gli schemi di governo della pandemia come laboratorio di ingegneria sociale per modificare radicalmente assetti organizzativi, bisogni umani, schemi istituzionali, l’impulso al movimento che connota e caratterizza il genere umano ha prevalso.
Riaggiornando la lezione già impartita con “Connectography”, l’analista politico Parag Khanna nel suo più recente e assai esplicito sin dal titolo “Il movimento del mondo” ha evidenziato le forze, ora latenti ora esplicite e ben visibili, che animano il moto perenne di una umanità sempre più insofferente alle limitazioni territoriali. Vero è che la digitalizzazione della società e dell’economia impone intersezioni tra forme istituzionali, città, cittadini che esondano dai confini nazionali, per agglomerarsi in entità del tutto nuove: ci si aggrega per interessi, per aspirazioni, per formazione personale, si cerca lavoro lontano da casa seguendo le invisibili ma ben esistenti direttrici dell’alta specializzazione.
Un mondo popolato da una umanità in perenne movimento, in cui le problematiche politiche e sociali si rendono enormi, perché globali. E di una declinazione del ‘globale’ molto più radicale rispetto alla mera politica internazionale per come comunemente intesa oggi. Se già la grande convergenza tecnologica evocata da Richard Baldwin aveva modellato delle aree del tutto estranee ai perimetri delle nazioni, in una stordente mescolanza di fattori della produzione, specializzazione, costo conveniente della forza lavoro, per cui i giganti della tecnologia producono materialmente i loro device in Asia e grandi società dell’aeronautica si embricano con argillosi paesini messicani, appare evidente come gli spostamenti di massa post-pandemici diverranno strutturali e dovranno essere governati con un approccio che sappia trascendere la limitazione spaziale singolo-nazionale. Da un lato, abbiamo migliaia di lavoratori e studenti che cercano opportunità spostandosi tra università e occasioni lavorative, apprendendo lingue, seguendo il percorso di autentici hub delle opportunità, spesso intersecati tra loro.
In questo scacchiere globale, sono le città i veri attrattori, più che i singoli Stati. Città evolute, innovative, affascinanti, dotate di plessi universitari rinomati e all’avanguardia in ricerca e sperimentazione, vivibili, certamente sostenibili, tenderanno fisiologicamente a unirsi in un arabesco internazionale con città a loro simili, prescindendo del tutto dalle singole appartenenze nazionali. Solo una erronea percezione politica, che rischiamo di pagare a caro prezzo, può portarci a considerare esclusivamente gli Stati come attori globali.
È la riflessione che punteggia e compone l’ottimo saggio di Raffaele Marchetti, “L’internazionalizzazione dei Comuni”, pubblicato di recente dalla LUISS University Press. Il sottotitolo è rivelatorio: dalle città-mondo all’arcipelago globale. Appare evidente come la autentica sfida politica in questo frammentario, accelerato e spesso caotico quadro sia quella di determinare nuove architetture di governance, perché la disarticolazione degli Stati nazionali avviene fattualmente, fuori cioè dalle regole dell’ordine giuridico. Proprio per questo, i governi dovrebbero riconoscere autonomia organizzativa e finanziaria ai territori, per consentire innovazione, gestione razionale della vita cittadina e soprattutto quell’attrattività che possa rendere i Comuni degli hub di alte specializzazioni, risorse, investimenti.
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