Il carcere è il luogo dove lo Stato mostra la verità di sé. Non ci sono conferenze stampa, né comunicati rassicuranti: solo corpi rinchiusi, persone spente, giustificazioni infinite. Lì dentro, tra le pieghe dell’amministrazione penitenziaria, si vede cosa intendiamo davvero per giustizia, per rieducazione, per umanità. E quello che si vede non è edificante.
Nel suo Diario di cella 17, Gianni Alemanno racconta chi è Fabio Falbo. Non un personaggio da santificare, ma un detenuto che da anni fa ciò che lo Stato dice di voler ottenere: studia, si forma, scrive, partecipa, assiste gli altri, si assume una responsabilità pubblica. È lo “scrivano di Rebibbia”, il punto di riferimento giuridico per decine di detenuti e per molti avvocati. Un uomo a cui persino il Presidente Napolitano ha scritto parole di stima. Eppure, Falbo non ha mai ottenuto un permesso, né misure alternative. Ha scontato 13 anni in regime di alta sicurezza per 9 mesi di pena ostativa. Nessun giudice ha mai ritenuto rilevante il suo percorso: perché non ha “collaborato”. Perché si dichiara innocente.
Nel frattempo, il ministro Nordio annuncia l’ennesimo piano d’intervento: diecimila detenuti con pena residua breve e nessuna sanzione grave potrebbero, entro settembre, accedere a misure alternative. Bene. Ma intanto si muore. A fine luglio, 134 morti in carcere: già più di tutto il 2024. E mentre si promettono task force, si continuano a negare benefici a chi ha già scontato gli anni ostativi e ha dimostrato, nei fatti, di aver compiuto un percorso di trasformazione. Si chiama ergoterapia della vendetta: non importa chi sei, importa quello che “non hai fatto” – come collaborare – e così resti chiuso. Nordio parla di solitudine, emergenza suicidi, bisogno di strutture migliori. Lo fa con toni pacati, a volte sinceri. Ma le sue proposte restano difensive, parziali, condizionate da una cultura della sicurezza che continua a immaginare il carcere come deterrente, mai come ponte.
Scommette sull’edilizia, sul numero dei posti, su una presunta razionalizzazione della detenzione. Ma nel frattempo ignora il nocciolo: il sistema penale non riconosce più il cambiamento. Se non è certificato dalla collaborazione – anche solo formale – il percorso del singolo non vale nulla. Neanche se lo riconoscono educatori, direttori, psicologi. Neanche se lo riconosce la vita reale. Il caso Falbo è emblematico perché mette a nudo la contraddizione: puoi essere esemplare, ma non uscirai mai. Non serve cambiare, serve piegarsi. E chi si piega viene premiato non per quello che è, ma per quello che dice di essere diventato. Non servono parole: servono norme. Servono magistrati di sorveglianza con risorse, tempo, formazione. Servono automatismi che rendano effettivi i diritti affermati dalla Cassazione.
Serve riconoscere che la rieducazione non può dipendere da un solo criterio: la collaborazione. Perché quando tutto il resto viene ignorato, la pena diventa puro esercizio di potere. La rieducazione è una clausola narrativa. Una formula da convegno. La verità è che lo Stato non crede nella riformabilità. Altrimenti non punirebbe chi si riforma. La vicenda di Falbo è la conferma: non è un’eccezione, è un principio. Chi cambia, ma non si piega, resta dentro. Perché la pena, in Italia, è ancora potere che si traveste da giustizia. E il travestimento, quando diventa costume di Stato, è il contrario della legge.
