Il “problema Craxi” va molto al di là del “culto della memoria” che giustamente portano avanti la sua famiglia e quell’area politica e culturale che si richiama al socialismo italiano. Nella prima parte di questo articolo, ieri, abbiamo posto la questione del PCI. Il nodo centrale è costituito dalla scelta fondamentale fatta dal PDS negli anni 90 dopo il crollo del Muro e del comunismo in Russia e nell’Europa dell’Est. Recentemente, da una fonte insospettabile quale è Mario Tronti, è venuto il riconoscimento che dopo il Muro di Berlino i miglioristi offrirono l’unica via razionale e valida al PDS, quella riformista e socialdemocratica che aveva come conseguenza l’unità con il PSI di Craxi. Ma c’è di più.
Giorgio Amendola addirittura nel 1964, prima della sua incredibile involuzione filosovietica, aveva proposto un partito unico della sinistra sulla base di una riflessione di straordinaria anticipazione degli eventi successivi: «Nessuna delle due soluzioni prospettate dalla classe operaia dei paesi capitalistici dell’Europa Occidentale degli ultimi cinquant’anni, la soluzione socialdemocratica e la soluzione comunista, si è rivelata fino ad ora valida al fine di realizzare una trasformazione socialista della società, un mutamento del sistema».
Amendola lanciò questo sasso nello stagno con grande anticipazione e quindi la sua suggestione fu bocciata da tutti, da un lato da tutto il PCI, dall’altro lato anche da Nenni e da Saragat. Nel PSI solo Fernando Santi la prese in seria considerazione. Nei primi anni ’90 “i ragazzi di Berlinguer” con sfumature differenziate fra Occhetto e D’Alema (perché il primo puntava ad una fuoriuscita “da sinistra” dal comunismo) seguirono la strada opposta, cioè quella espressa in modo netto proprio da D’Alema nel suo libro-intervista, che era quella di collocarsi nello stesso spazio del PSI sostituendosi ad esso e quindi puntando sulla sua distruzione, successivamente avvenuta cavalcando lo sbocco unilaterale di Mani Pulite.
Perché parliamo di “sbocco unilaterale” di Mani Pulite? Perché Tangentopoli era un sistema che coinvolgeva tutti i grandi gruppi economici privati e pubblici (compresa la Fiat e la CIR) e tutti i partiti (compresi il PCI e la sinistra democristiana) tant’è che al suo decollo, quando ancora non era chiaro quale sarebbe stato il comportamento politico reale del pool dei Pm di Milano. Achille Occhetto si precipitò nuovamente alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani, sostenendo giustamente che altrettanto avrebbero dovuto fare Forlani per la DC e Craxi per il PSI.
Poi invece il pool di Milano e il circo mediatico (composto dai quattro principali quotidiani i cui direttori o i loro delegati si consultavano ogni sera alle 19, dal TG3 di Sandro Curzi, già direttore di Radio Praga, da Samarcanda di Santoro), con una incredibile forzatura giudiziaria e mediatica, criminalizzarono Craxi e tutto il PSI, i partiti laici, il centro-destra della DC salvando il PDS e la sinistra democristiana malgrado che anch’essi si finanziassero irregolarmente (per una dimostrazione documentata di tutto c’è una bibliografia sterminata: fra tutti rimandiamo al libro fondamentale di Ivan Cecconi, purtroppo volutamente ignorato La storia del futuro di Tangentopoli).
L’originario gruppo dirigente del PDS si è illuso che quella mediatica-giudiziaria fosse la scorciatoia che gli consentiva di conquistare il potere senza pagare dazio, cioè senza approdare ad una reale Bad Godesberg, anzi traducendo il leninismo in giustizialismo e la “diversità” comunista in molteplici forme di massimalismo sociale. Questa “furbizia” strategica e tattica ha invece portato il PDS-DS e poi il PD in un vicolo cieco. Prima essi si sono trovati davanti Berlusconi contro il quale, malgrado uno straordinario uso politico della giustizia, non sono mai riusciti a prevalere definitivamente. Nel 2011 entrambe le due coalizioni per evitare il collasso finanziario si sono dovute affidare al rigorismo assoluto del governo Monti, e l’intreccio fra impotenza dei governi e il rigorismo estremo ha prodotto il populismo antiparlamentare e antindustriale dei grillini e il sovranismo razzista di Matteo Salvini.
Allora l’apertura di una riflessione su Craxi, in occasione del ventennale della sua morte, dovrebbe essere l’occasione per una parte almeno del PD non solo di esprimere un equanime giudizio su di lui, ma paradossalmente proprio per riflettere su se stessa, su alcune scelte di fondo riguardanti il rapporto con il maggior potere politico e mediatico oggi esistente in Italia, che è quello della magistratura, quindi sullo stato di diritto e sullo stato sociale, sull’immigrazione, sui rapporti con le imprese, con i ceti medi, con la classe operaia, con i giovani.
Senza questo revisionismo a 360° che faccia davvero i conti con quella che a suo tempo è stata la felice provocazione craxiana nei confronti dell’establishment, espresso dall’intreccio fra berlinguerismo e scalfarismo, il PD è destinato ad una vita grama. La stessa rottura di Italia Viva dovrebbe preoccuparlo, non solo per quello che di dirompente assume qualunque iniziativa renziana, ma per il nocciolo culturale che, comunque, Italia Viva e anche Calenda esprimono rispetto alla stanca riproposizione degli stereotipi dell’Ulivo che dal 2008 ha esaurito il suo ruolo “propulsivo”.
