«È il sintomo di una malattia che sta contagiando il mondo accademico, dove la propaganda sta prendendo il sopravvento sul dibattito e la ricerca scientifica». Sergio Della Pergola, demografo e professore emerito all’Università di Gerusalemme, è stato da poco vittima di un “incidente culturale”. Reo di aver definito la guerra di Gaza un “danno collaterale” (ma lui aveva aggiunto “devastante”), in conseguenza del 7 ottobre, la rivista Il Mulino, che ha ospitato un suo articolo, e una certa parte di stampa italiana lo hanno messo all’indice perché, in quanto ebreo, automaticamente sarebbe colluso con il governo israeliano.
Professore riavvolgiamo i nastri. Cos’è successo?
«Premessa: io non seguo le vicende editoriali del Mulino. Con loro ho soltanto scritto due libri (“Israele e Palestina: la forza dei numeri”, nel 2007, e “Essere ebrei, oggi”, nel 2024, Ndr). Alcune settimane fa, mi viene segnalato un articolo apparso sulla versione digitale della rivista, “Strada Maggiore 37”. L’autore è Massimiliano Trentin, professore associato di relazioni internazionali all’Università di Bologna, che sostiene come la guerra Israele-Iran non sarebbe stata un’operazione difensiva a una minaccia concreta, ma parte di un piano imperialista per destabilizzare il Medio Oriente, trascinando gli Stati Uniti in un progetto egemonico. L’articolo suggerisce inoltre, data l’inefficacia della protesta pacifica contro Israele, il ricorso alla violenza».
Lei quindi ha deciso di rispondere…
«Sì, scrivo una replica e ricevo una risposta del direttore della rivista, Paolo Pombeni, il quale, con molta cortesia, mi dice che il testo è troppo lungo, personale, troppo aggressivo. Io quindi lo riduco e ne abbasso i toni. Alla fine viene pubblicato».
Cosa dice, in sintesi, la sua risposta?
«Innanzitutto, escludo il presunto “complotto israelo-americano”. Il programma nucleare iraniano è un dato di fatto. Nessuno conosce esattamente il livello di sviluppo, ma l’intenzione di colpire Israele esiste e viene dichiarata apertamente. Lo abbiamo visto anche con l’attacco di giugno: per quanto la maggior parte dei missili balistici sia stata intercettata, alcuni hanno colpito il bersaglio causando danni gravi».
E sul tema della violenza?
«L’idea che si possa giustificare una “protesta violenta” in nome della causa palestinese è inaccettabile in un discorso politico. Ed è ancor più grave che venga tollerata in una rivista accademica. Tuttavia, dopo la pubblicazione della mia risposta, si è aperta una polemica interna alla redazione. Un gruppo di 22 membri dell’associazione, che anima Il Mulino ma soprattutto che elegge il direttore della rivista, pubblica una lettera di critica».
Cosa le è stato contestato?
«In parte la mia posizione su Israele, considerata “troppo di destra” e automaticamente favorevole a Netanyahu (cosa contrarissima alle mie idee). In parte il tono del mio intervento. In parallelo a questo, si scopre che Pombeni viene contestato. Lo scorso anno, è stato eletto direttore con uno scarto di due voti (32 contro 30, Ndr). L’opposizione interna lo considera troppo di destra».
Ma sulle questioni israeliane?
«No, no. Nulla a che fare con Israele. La faccenda è squisitamente italiana. Una cosa di cui non so nulla. A me interessa che una casa editrice mantenga un livello alto di confronto civile e professionale. Una cosa che Il Mulino ha sempre garantito».
Torniamo al “gruppo dei 22”.
«Sì, la loro è un’accusa abbastanza aggressiva. Lontana sia dalla tesi centrale del mio articolo, la questione iraniana, sia dalla critica che rivolgo all’approccio “due pesi, due misure” riguardo ai conflitti in corso. Quello che avviene a Gaza è ingigantito dal megafono mediatico rispetto a quello che succede altrove. In Ucraina, per esempio. Niente, l’indice inquisitorio punta dritto sull’espressione “danno collaterale devastante”, che uso per definire la tragica situazione umanitaria emersa a Gaza dopo il pogrom del 7 ottobre. Ora “devastante” non è certo un termine riduttivo. Il problema è che viene (proditoriamente?) amputato. Sui giornali, resta così il “danno collaterale”».
Termine che può essere frainteso o strumentalizzato.
«Forse sì. Avrei potuto dire “danno consequenziale”. In ogni caso il senso era chiaro: esistono effetti distruttivi non voluti, ma ugualmente gravi. Il fatto di amputare la parola decisiva, “devastante”, e poi partire al contrattacco, riaprendo perfino la vecchia ferita di Sabra e Shatila, è pretestuoso».
Cosa c’entra Sabra e Shatila infatti?
«L’eccidio di Sabra e Shatila del 1982 fu compiuto da milizie cristiane maronite. È vero che l’esercito israeliano avrebbe potuto intervenire, ma attribuirne la responsabilità a Israele è una fuga dalle proprie responsabilità scorretta e indebita».
Quindi tornare a evocarlo, secondo lei, è come dire “sono sempre gli ebrei”?
«Esattamente. È un modo per dire: “siete recidivi”. E da lì è un attimo a rispolverare l’accusa di Deicidio, l’usura, i soliti stereotipi. Il problema è che nel discorso mediatico oggi si sono inseriti dei temi che vanno oltre la critica, per me giustissima e condivisa, contro il governo Netanyahu. No, si è passati a una fase accanita di antiebraismo che si pensava superata. C’è una degenerazione del sistema. Una cosa è criticare la guerra a Gaza, su cui posso essere d’accordo. Un’altra è delegittimare e snaturare quello che ho scritto, e con esso tutta Israele e tutti gli ebrei».
Quindi come ha reagito?
«Ho scritto una lettera di protesta. Pubblicata anche nelle pagine bolognesi su la Repubblica. Anche lì si era parlato solo di “danno collaterale”. Il problema è che, con Israele, emerge sempre una doppiezza morale di vedute. Siamo d’accordo: gli errori del suo governo sono evidenti e indifendibili. Militari e politici. Tuttavia, si è intrufolato nel dibattito un elemento di totalitarismo del tutto nuovo. Oggi gli atenei non sono più uno spazio di discussione libera, bensì rischiano di diventare uno strumento di militanza ideologica».
Quale sarà il suo futuro con Il Mulino?
«Non credo certo di dover rispondere al gruppo dei 22. Sarebbe svilente. Magari, quando avrò un po’ di tempo, mi metterò a scrivere le mie memorie. Potrei proporgliele…».
