L’indagine di Cavenaghi tra le macerie del Pci

Si sa tutto sui socialisti a Milano negli anni di tangentopoli, sui sindaci Tognoli e Pillitteri e sul cittadino più famoso, Bettino Craxi. È sempre rimasto un po’ in penombra il partito che per molti anni con il Psi ha governato la città e che non è stato risparmiato dalle mazzate dei pm. Questo partito si chiamava Pci, lo stesso che a Roma andava a braccetto con le toghe, a Milano non si salvò né dalle inchieste né da una devastazione dei suoi militanti, che fu psicologica prima ancora che politica. Una città che nel 1993 non si è ancora ripresa dalla botta, che è tutta uno sferragliare di tram e presenta luci fioche, viene raccontata da uno che c’era, nella metropoli e anche nella sinistra, in un libro dal titolo che sa di resa: Addio Milano bella di Lodovico Festa, Edizioni Guerini e associati.

«Erano quattro anni che Mario aveva tagliato i ponti con Milano, con il partito, con le vicende di una politica a lungo, per più di trent’anni, padrona quasi assoluta della sua vita». Questa storia potrebbe essere liquidata come fosse solo la piccola vita di uno dei tanti che se ne erano andati, in parte anche quella dell’autore, ma sarebbe poco generosa nei confronti dell’ingegner Cavenaghi, l‘ex capo dei Probiviri lombardi del Pci fin quasi agli anni novanta. Uno di quelli addetti all’etica (troppo spesso anche alla vita personale dei compagni), ma anche alle strategie del partito e a certe relazioni, da cui non erano esclusi magistratura e forze dell’ordine, e che non disdegnavano di tenere l’occhio attento ai rapporti con l’Unione Sovietica, fin che c’era stata.

Quasi avesse avuto l’intuizione di qualcosa di tremendo che stava per abbattersi sulla città, sulle sue istituzioni, sui suoi partiti, e anche sui comunisti lombardi, quelli della corrente riformista (o migliorista) sempre sospettati di intelligenza con il nemico, cioè quel Bettino Craxi con cui pure governavano Milano e migliaia di altri Comuni, Mario Cavenaghi aveva dato un taglio netto a tutto. Aveva preso su la Carla, «da sempre rigidamente anticomunista», i due figli e se ne era andato a Lugano. Un posto da sempre considerato “noioso” dai milanesi, che ci andavano per una gitarella sul lago o negli anni sessanta per fare benzina e comprare sigarette e dadi di pollo, ma che non avrebbero mai potuto viverci.

Lui si, il Cavenaghi. Anche perché ascoltare ogni mattina il tg ticinese che festeggiava il centenario del famoso coltellino svizzero, che raccontava la vita senza fremiti dei consigli comunali o dell’ennesimo referendum, dava pace alla mente. Addio Milano bella, io sto a Lugano. Niente correnti di partito né congiure di palazzo né pericolo di scissioni. Quando lui se ne era andato, lo scioglimento del Pci e poi la nascita del Pds e di Rifondazione comunista non erano ancora nell’aria. O per lo meno non erano dichiarati. Riservatezza comunista. Quel che invece correva lungo le vie sotterranee del suo partito era la “questione morale”. Certo, ne aveva parlato Enrico Berlinguer («i partiti di oggi sono soprattutto macchine di clientele e di potere…») tanto tempo prima. E in seguito, ma quando Mario era già via e il disastro si era già abbattuto anche sul suo partito, Bettino Craxi aveva enunciato analogo concetto in un suo famoso discorso alla Camera: tutti i partiti, aveva detto con enfasi senza che nessuno lo smentisse, sono finanziati in modo irregolare o illegale.

Mario Cavenaghi, benché ormai “svizzero”, quando viene svegliato dal suo torpore da un vecchio compagno del partito che gli chiede aiuto per una questione a metà tra la morale berlingueriana, il complotto politico o sbirresco o magari straniero e un rompicapo da film giallo, sente che non può sottrarsi. Non può negarsi, benché debba prima fare i conti con l’implacabile Carla, per quel suo antico senso del dovere, per l’affetto nei confronti di quella che è pur sempre stata per anni la sua comunità, e anche perché curioso di guardare per due settimane dal buco della serratura le macerie sotto cui sembrano seppellite Milano e la vecchia Federazione del Pci. Che ormai non si chiama neanche più così. Perché i comunisti non ci sono più, meglio dirsi “democratici”, lo sguardo si allarga. Anche se nel frattempo si è perso per strada qualche milione di voti.

Due settimane di incontri, su e giù per i tram, quasi la vecchia morale impedisse l’uso dei taxi. A cercare, a capire. A cercare due miliardi di lire spariti dalla cassaforte le cui chiavi erano in possesso del Presidente dei probiviri (quello che aveva preso il posto di Mario dopo un po’ dalla sua partenza) morto d’improvviso d’infarto. Due settimane che si trasformano in una radiografia impietosa dello stato di un partito che, mentre a Roma, cioè sul piano nazionale, era l’alleato più fedele, anche se non certo disinteressato, dei pubblici ministeri di Mani Pulite che avevano fatto a pezzetti la prima repubblica, a Milano erano ancora lì a leccarsi le ferite. C’erano stati indagati, perquisiti e arrestati. Cavenaghi cerca i soldi ma trova solo gente che vuol parlare di quello che è successo con tangentopoli e le inchieste dei pubblici ministeri. Parla un po’ con tutti, fa il finto distaccato, ormai senza passione né sentimenti, come se ci si potesse mai levare dalla pelle la scimmia della politica. E quella del sogno rivoluzionario, anche. “Partito di lutto e di governo”, ridacchia qualcuno.

In tutti c’è lo sconcerto all’idea che possano esserci stati compagni che si dedicassero all’arricchimento personale, magari “teste finissime e aliene da qualsiasi volgare pulsione” di quel tipo. Ci pensano tutti, e si capisce che un po’ ci credono, nonostante un personaggio come Bruno Trentin (uno dei pochi citato con il nome vero, gli altri sono solo citazioni allusive, difficili da individuare per i non milanesi), troppo radicale per i comunisti milanesi, avesse messo in guardia: «Stiamo attenti a condannare senza cercare di capire». Ognuno dice la sua, spesso con una certa pedanteria, il funzionario come l’ex magistrato, il famoso architetto e la sciura protettrice di giovani rivoluzionari, il vecchio cronista giudiziario dell’Unità che stava per principio sempre dalla parte dei magistrati, e di uno in particolare.
Qualcuno si avventura a spiegare la spaccatura tra i compagni sull’operato della magistratura simile a quella che c’era stata sul sessantotto, come se i magistrati con la distribuzione di manette, spesso a casaccio, fossero diventati i protagonisti del cambiamento.

Ma c’è chi parla di “macelleria giudiziaria” e chi si difende, lamentando di esser arrestato pur avendo fatto tutto “secondo le regole”. Si, ma quali regole? La carrellata va a sfiorare il ministro Conso e il suo fallimentare tentativo di un’uscita onorevole da tangentopoli, stroncata da quel pool di direttori di giornali che agiva in parallelo (e in combutta) a quello dei pm. C’è chi ricorda di aver avvertito Craxi della deriva che stava prendendo la classe politica milanese. E c’è l’angoscia, la mancanza di una zattera cui i naufraghi possano aggrapparsi, la mancanza di ricambio della classe politica dirigente. Si ondeggia tra la disperazione e la voglia di ribellarsi comunque a certi comportamenti della magistratura, e anche degli avvocati complici, gli “accompagnatori” che mettevano i propri assistiti nelle mani di Di Pietro.

Come è andata a finire? Visto che “Addio Milano bella” è anche un noir, sappiamo che il compagno Cavenaghi il giallo dei soldi spariti l’ha risolto, con l’aiuto di qualche papa straniero. Sentendosi una specie di James Bond “con la pancera”. Ma dobbiamo anche sapere che il suo compito principale non era quello di improvvisarsi detective, ma di fare la relazione; dove stava andando, dopo le inchieste giudiziarie e tutto il resto, quel popolo che era stato comunista? Che cosa ne pensavano i cittadini e i compagni? «Febbraio non è mai un mese allegro a Milano, nonostante il carnevale».

Così l’ingegner Mario Cavenaghi, ex presidente dei probiviri, ormai in procinto di tornare esule a Lugano, finisce con lo stendere la relazione secondo il canone tradizionale dei comunisti quando erano in difficoltà, «cioè quella di sostenere che fosse vera una cosa ma anche il suo esatto contrario». Poi dice addio, ma questa volta per sempre, a Milano. E tornato a casa «poté serenamente andare a letto e, tenuto sveglio non dalla tensione ma dall’amore, dopo un po’ dormire del tutto pacificato».