Si fa un gran parlare della disastrosa politica di appeasement che Inghilterra e Francia tentarono a Monaco, nel 1938, di fronte all’aggressività del Terzo Reich. Il rischio, si dice, è un nuovo cedimento all’espansionismo militare di una grande potenza. Ieri Hitler, oggi Putin. Monaco, tuttavia, evoca un tragico errore, finendo per assecondare il pessimismo – o l’indifferenza – delle nostre opinioni pubbliche sulla tragedia ucraina.
Meglio sarebbe chiedersi, se proprio dobbiamo rivangare la storia, come fu possibile che a quella tremebonda sconfitta del 1938 seguisse la vittoria totale del 1945. Una vittoria che era sembrata dapprima impossibile, con la Germania capace di conquistare in un paio d’anni la gran parte dell’Europa, e che tuttavia diventò realtà, quando gli Alleati fermarono l’avanzata nazista in Russia e nel Pacifico e poi si ripresero anche il Vecchio Continente, arrivando fino al bunker di Hitler. Lieto fine che oggi, di fronte alla guerra scatenata da Mosca, rischia di apparire irrealistico. Ma è sulle ragioni della vittoria e non sulla fatalità della sconfitta che bisognerebbe riflettere. Perché, malgrado tutto, i giochi sono ancora aperti.
Ebbene, cosa manca all’Ucraina e all’Europa per sconfiggere Putin? Manca un adeguato schieramento geopolitico, in primo luogo. Nel 1941, al culmine dell’avanzata hitleriana, la svolta avvenne grazie all’ingresso nella coalizione antitedesca degli Stati Uniti e poi dell’Unione Sovietica – un regime che, fino a quel momento, l’Occidente aveva detestato come il male assoluto. E tuttavia vinse il realismo e la consapevolezza della minaccia. Oggi, al contrario, è lo stesso Occidente ad evaporare sotto i colpi di un trumpismo nazionalista e isolazionista. Lo schieramento che fronteggia la Russia perde il pezzo da novanta. E non sembrano andare a segno i tentativi di Kyiv e di Bruxelles di recuperare la solidarietà americana.
Ma non solo. Manca, all’Europa, anche la volontà politica di riconvertire alla produzione bellica una parte (significativa) del proprio sistema industriale. Oggi, nei nostri Paesi, evocare i cannoni al posto del burro è poco meno che un’eresia. Non esiste alcun piano di riarmo neppure lontanamente paragonabile a quel che realizzarono, in tempi rapidissimi, tra 1941 e 1943, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. E manca all’Europa, non di meno, un impegno strategico nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica, che pure sarebbe decisivo in tempi di guerre ibride e missili ipersonici, come fu decisivo negli anni Quaranta del Novecento il poderoso ammodernamento, da parte degli Alleati, delle forze aeree e terrestri, dei sistemi di intelligence, delle tecniche di comunicazione. Per non dire di un Progetto Manhattan (1942-46) che impegnò migliaia di scienziati e ingegneri nella messa a punto dell’arma atomica. Se si guarda all’odierna dipendenza europea nei confronti dell’high tech statunitense e delle materie prime cinesi, le conclusioni sono fin troppo ovvie.
Ma non è soltanto sul piano della consistenza degli apparati di difesa che sarebbe da attendersi un impegno europeo adeguato alle circostanze. La vittoria degli Alleati sul nazismo fu anche il risultato di una mobilitazione morale dei suoi popoli, ovvero di un’attitudine etica e politica che sembra del tutto estranea alle attuali opinioni pubbliche occidentali, così straordinariamente sfibrate dall’inconsapevolezza del pericolo, dalla reticenza alla solidarietà verso le vittime, da un pacifismo irresponsabile, dalle simpatie filorusse. Ottant’anni fa, la guerra fu vista da buona parte del mondo – e dalla maggioranza degli europei – come una guerra giusta.
La libertà contro la dittatura. La civiltà contro la barbarie. E Hitler era il simbolo perfetto del nemico. L’anticristo. L’odio nei suoi confronti fu un cemento morale per centinaia di milioni di individui. Anche nella Russia sovietica quella fu una lotta popolare di liberazione. Mentre i suoi soldati morivano sul fronte a milioni di milioni, Stalin sollecitò l’unità della nazione, esaltò il patriottismo, riabilitò l’autorità della Chiesa e le pratiche religiose. Sebbene tra gli Alleati albergassero, fianco a fianco, democratici e comunisti, la guerra contro il nazifascismo assunse l’aura del confronto tra il bene e il male. Le certezze morali erano forti. L’impegno popolare diventò resistenza armata. Fu anche questa – o soprattutto questa – la strada della vittoria. Una lezione dimenticata, oggi, dai pochi sopravvissuti e sconosciuta alle nuove generazioni. Ma è difficile suggerire a questa Europa smarrita un diverso percorso.
