Tanti personaggi in movimento, da due epoche diverse. Il lettore fa fatica, si confonde. Poi si affeziona, ma non capisce…  Adam è un giovane orfano, fin dall’infanzia viene adottato da una ricca famiglia borghese nella Polonia degli anni trenta; qui si presenta il suo piano evolutivo: da piccolo borghese viziato, antisemita e impotente  arriva al riscatto morale  con il nascondere un gruppo di ebrei, che diventerà la sua famiglia vera. Andrea è un adolescente di sedici anni,  con un padre assente, che trova il nonno, la certezza della sua vita, morto nel suo appartamento in via Tuscolana, nella Roma del terzo millennio. Sta per perdersi definitivamente in un labirinto di nichilismo e cieca rabbia, quando incontra Camilla, sua coetanea e devota della dea Kalì!

Franca è una vedova, felice di poter realizzare il suo sogno di scrivere un romanzo, nell’isolamento totale di una società rurale abruzzese, che, come un’antichità psicologica, rimane refrattaria al passare del tempo e ai cambiamenti del nuovo millennio. Altri si muovono sul palcoscenico mobile di questo romanzo, e il lettore non potrebbe affezionarvisi se non gli fosse dato uno sguardo oltre le maschere che indossano, la percezione di un’umanità ferita, in crisi, alla ricerca di famiglia vera e di un “luogo ameno” dove trovare guarigione definitiva dai propri dolorosi ricordi. E come spesso accade, la sofferenza stessa ne intensifica la ricerca spirituale.

Un punto nodale, essenziale in questa rete pian piano si profila nell’enigmatico scrittore, onnipresente, che più che scrivere, sembra sognare personaggi e vicende, rendendoli, a loro insaputa, parte della sua coscienza unificante. La sua creatività letteraria, tuttavia, si manifesta con chiarezza gerarchica: detta intrecci al nostro Adam il quale, morto ad Auschwitz, dall’aldilà rimane in contatto con la sua famiglia acquisita, seguendola anche nella sua incarnazione successiva. Da spirito non privo di passioni, si finge l’angelo custode di Franca, di cui è segretamente innamorato. E lei, nella solitudine della fattoria, nido vuoto abbandonato da poco anche dal capofamiglia, scrive quel che le viene sussurrato nell’orecchio destro, pensando felicemente –e erroneamente-  che il romanzo che  sta nascendo sia suo.

E così questi personaggi  vivono, muoiono e nascono per noi, regalandoci emozioni e spunti di introspezione. Ci viene dato uno sguardo nel cupo mondo adolescenziale, fatto di immagini false, lotte di potere e di tragici innamoramenti, in cui il riscatto morale dovrà essere raggiunto dalla figura cardine del testo, Andrea, che al di là dalla complessità sociale, ormonale, emotiva, cerca, anche lui, la purezza primordiale di un “luogo ameno.”  Viviamo la vedovanza di Franca, paradossalmente il periodo più felice della sua vita, anche se è costretta a difendere il suo segreto progetto letterario contro gli attacchi – maldicenze, invidie e ferrei controlli sociali – dei suoi famigliari e dei suoi compaesani. Lei vive la solitudine  come una strega, e come tale si difende contro i suoi avversari, regalandoci alcune delle scene più ilari di tutto il libro.

E poi Adam, che si libera dalla sua stessa maschera soffocante soltanto quando, ascoltando “un fastidio nel cuore,” fa la scelta eroica di opporre una segreta resistenza contro i nazisti che occupano la sua stessa casa. Le sue descrizioni del ghetto di Varsavia sono tra le più tragiche del libro, ma è lì che avviene in lui la svolta: da erede di un vasto patrimonio compie un sacrificio che, quasi, sicuramente, gli costerà la vita. E così il lettore comincia a intuire che cos’è che lega tutte queste vicende umane così lontane tra di loro, nel tempo e nello spazio. Comincia a capire che l’umanità stessa pesa come una maschera su delle anime che muoiono in un’avventura e si reincarnano in un’altra. E come se si trattasse di un giallo metafisico, ci si può chiedere: chi è chi?

Finisco citando un momento intimo nel romanzo, in cui Adam, ormai spirito invisibile, ci racconta la routine della sua amata Franca, che scrive nella solitudine della sua fattoria: “Questa donna, la mattina, si sveglia alle cinque. Per prima cosa deve far ripartire la stufa a legna in cucina e lo fa aprendo la valvola del camino e aggiungendo nuova legna. Poi, per risparmiare gas, esercita la sua pazienza e si fa il caffè sulla stufa. Il latte non lo beve (Orietta spesso gliel’ha rimproverato), ma zucchera il caffè e ci intinge tre o quattro biscottini. Io, a volte, vedendola seduta lì alla tavola in cucina, non resisto e mi metto seduto anche io, sulla sua spalla destra, ma mai per lungo tempo. Mi accorgo che non gradisce, che con quel peso si sente pressata a scrivere per così tanto tempo, che non avrebbe più una vita umana, fatta di premure per gli animali e per le piante, per i figli, fatta di sforzi per risparmiare denaro, di pasti da preparare e una casa da pulire. Devo stare attento, io, a non dimenticare che la sua è una vita umana, di sforzi e fatiche, mentre io, invece, me ne sto beato in stand by, qui, nel mondo astrale”.

 

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