L’omicidio di Antonino Scopelliti e i giudici ragazzini: dopo 30 poco è cambiato

Nove agosto 1991, un giovane pubblico ministero, di fresca nomina e forse neppure trentenne, si china sull’auto che in un fossato custodisce il corpo esangue del giudice Scopelliti. Si pensa a un incidente, se non fosse per la macabra scoperta di un capo sfigurato dai colpi. Pochi mesi prima il presidente Cossiga aveva aperto una violenta polemica sui «giudici ragazzini». Aveva puntato il dito su un sistema che non riusciva a impedire che magistrati – finanche con pochi mesi di servizio – si occupassero di indagini complesse soprattutto sul fronte della mafia e nelle sedi più disagiate.

Qualcuno volle leggere in quelle parole aspre una critica indirizzata addirittura verso il povero Rosario Livatino che il 21 settembre 1990 era stato ucciso per ordine dei boss agrigentini. Tempo dopo quell’esternazione del 10 maggio 1991, il Presidente scriverà una lettera ai genitori del coraggioso giudice con cui tenne a smentire nettamente quella lettura delle sue dichiarazioni che, piuttosto, puntavano l’indice contro l’invio sui fronti caldi della lotta alla mafia di giovani toghe di prima nomina. Parole che meritano di essere ricordate, perché echeggiarono anche quel 9 agosto 1991 quando le più alte autorità dello Stato, accorse in Calabria, si resero conto che un manipolo di giovani toghe avrebbe dovuto domare la fiera mafiosa.

«Lo faccio ora – spiegava Cossiga nella lettera aperta – perché questa accusa mi è stata nuovamente rivolta. Io ho usato evvero! questo termine: ‘giudici ragazzini’; ma mai l’ho fatto rivolgendomi a vostro figlio; bensì in senso affettuoso e comprensivo nei confronti di giovanissimi giudici che l’insipienza del Csm mandò allo sbando destinandoli a prestare servizio, quasi appena terminato l’uditorato, nel nuovo tribunale di Gela… In coscienza io mi sento tranquillo. E – concludeva – lo sarei ancora di più se, come spero, pur nel silenzio, voi mi giudicaste nella vostra coscienza quale ammiratore del vostro figliolo e vostro fedele e riconoscente amico». Ecco, tra le tante parole e i tanti riti celebrati nel corso dei trenta anni che ci separano dall’uccisione del giudice Antonino Scopelliti, anche questo profilo della vicenda non può essere trascurato perché direttamente connesso alla percezione – che allora dominava la pubblica opinione – che lo Stato offrisse una risposta insufficiente alle minacce poste dalla criminalità mafiosa. Percezione che quel sangue enfatizzava ancora una volta.

Nel caldo afoso di un agosto del 1991, risuonarono infatti ancora una volta le parole di Cossiga alla vista di quel giovane magistrato e aveva ripreso vigore la sua polemica sul punto, poi riattizzata in un famoso discorso del presidente raccontato da Giovanni Maria Bellu e Giuseppe D’Avanzo («Cossiga va alla guerra di mafia», La Repubblica, 5 novembre 1991). Non c’era solo la morte di un servitore dello Stato a preoccupare la nazione, ma al contempo, in quel tempo poi non così distante dalla creazione delle procure antimafia, la convinzione di una sorta di inadeguatezza e impreparazione a fronteggiare la piovra. Dopo trenta anni, le professionalità sul fronte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria sono cresciute a dismisura e in modo incomparabile rispetto a quel 1991. Eppure, dopo tanto tempo, non manca qualche voce che ancora si leva a segnalare il rischio che le sedi giudiziarie del Mezzogiorno possano riproporre deficit professionali, vuoti di esperienza, cedimenti sul versante della valutazione della prova e, questa volta, nello snodo decisivo dei giudici, ossia di coloro i quali sono chiamati a ponderare la correttezza di imponenti ipotesi accusatorie.

Poche settimane or sono, un giudice accreditato e con un curriculum di tutto rispetto ha pubblicato un articolo dal titolo «Giudici in Calabria» in cui si legge: «Ha fatto (giustamente) scalpore la notizia che il collegio giudicante del Tribunale di Vibo Valentia al quale è stata affidata la responsabilità della trattazione del procedimento nato dall’operazione Rinascita Scott sia composto da tre colleghe, ciascuna delle quali ha assunto le funzioni nel maggio del 2018. La circostanza non poteva in effetti passare sotto silenzio, posto che si fa riferimento a quello che viene ritenuto uno dei più complessi ed importanti processi di sempre contro la criminalità organizzata, che – in sede di rito ordinario – conta 325 imputati per complessive 438 contestazioni di reato, prevede l’assunzione di quasi un migliaio di testimoni e 58 collaboratori di giustizia indicati solo dall’ufficio di Procura e vede impegnati circa 600 difensori». Quindi la garbata evocazione dell’antica polemica di trenta anni prima: «Tutto ciò richiederebbe – ancor più a fronte di Uffici di Procura adeguatamente attrezzati di uomini e mezzi e supportati da apparati investigativi di prim’ordine – la presenza massiccia in tali territori di una magistratura giudicante che, sia sul piano numerico che su quello dell’esperienza e delle conoscenze accumulate, si assuma la responsabilità di gestire in prima persona i procedimenti, costituendo un riferimento costante per i giovani magistrati che in gran numero vi sono destinati all’inizio del loro percorso professionale».

Parole misurate, destinate a un uditorio selezionato e informato che non ha bisogno di essere scaldato dalla verve polemica di Francesco Cossiga, ma che ben avverte i limiti di una copertura degli uffici giudiziari del Sud d’Italia che non può fare – ancora una volta – affidamento su professionalità mature e rassicuranti. Solo che, in questa occasione, il discorso inevitabilmente prende in esame tutte le parti del processo; l’accusa che non vuole svilite le proprie tesi investigative e la difesa che non vuole sacrificata la propria funzione sull’altare di istanze diverse da quelle di pura e semplice giustizia. Ecco perché, probabilmente, i lavori della «Commissione interministeriale per la giustizia nel Mezzogiorno», voluta dalle ministre Cartabia e Carfagna, hanno un senso a distanza di trenta anni dal chinarsi di quel giovane pubblico ministero sul corpo insanguinato del dottor Scopelliti, magistrato della Procura generale della Cassazione. Perché nessun può dirsi rassicurato sino a che gli apparati di giustizia non avranno raggiunto un equilibrato rapporto tra efficienza e professionalità, da cui non va certo disgiunto l’impegno entusiasta delle giovani toghe.