“Accogliendo il desiderio del cardinale Montenegro, concediamo che il venerabile servo di dio Angelo Rosario Livatino d’ora in poi sia chiamato beato e che, ogni anno, si possa celebrare la sua festa il 29 ottobre”. Ammazzato dalla mafia il 21 settembre 1990, il giudice Livatino è stato proclamato beato nel corso di una cerimonia celebrata nella cattedrale di Agrigento con la camicia indossata dal beato il giorno in cui venne ucciso collocata in una teca della cattedrale.

Il processo di beatificazione: tra le testimonianze anche il killer

Il 19 luglio 2011 è stato firmato dall’arcivescovo di Agrigento, Francesco Montenegro, il decreto per l’avvio del processo diocesano di beatificazione, aperto ufficialmente il 21 settembre 2011 nella chiesa di San Domenico di Canicattì. Durante la fase diocesana hanno testimoniato 45 persone sulla vita e la santità di Rosario Livatino, e tra questi anche Gaetano Puzzangaro, uno dei quattro killer mafiosi del giudice, intervistato in carcere dal giornalista canicattinese Fabio Marchese Ragona per il settimanale Panorama nel dicembre 2017 e per il Gruppo Mediaset TGcom24 nel settembre del 2019.

“Il giudice Livatino lavorava per tutti quei giovani che si erano persi nell’abbraccio mortale della criminalità. Lavorava, quindi, anche per me, per vedermi libero e vivo. Io non l’avevo capito”,ha recentemente dichiarato l’uomo, condannato all’ergastolo.

L’omicidio mentre andava in tribunale

Il giudice a poche settimana dal suo 38esimo compleanno (era nato il 3 ottobre 1952). Era il 21 settembre 1990 e Rosario Livatino, a bordo della sua Ford Fiesta di colore rosso, dal piccolo comune di Canicattì, dove viveva, si stava recando al tribunale di Agrigento quando fu avvicinato e ucciso da un commando di quattro sicari assoldati dalla Stidda agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa nostra.

Il giudice venne affiancato da una Fiat Uno e da una motocicletta di grossa cilindrata e costretto a fermarsi sulla barriera di protezione della strada statale. I sicari hanno sparato numerosi colpi di pistola. Rosario Livatino ha tentato una disperata fuga, ma è stato bloccato. Sceso dal mezzo, ha cercato scampo nella scarpata sottostante, ma è stato ammazzato con una scarica di colpi. Sul posto i colleghi del giudice assassinato; da Palermo l’allora procuratore aggiunto Giovanni Falcone, e da Marsala Paolo Borsellino. Rimane ancora oscuro il vero contesto in cui e’ maturata la decisione di eliminare un giudice non influenzabile. Prima di lui, il 25 settembre 1988, furono uccisi il presidente della Prima Sezione della Corte d’Assise d’Appello di Palermo Antonino Saetta e il figlio Stefano trucidati in un agguato mafioso sempre sulla statale Agrigento-Caltanissetta, sul viadotto Giulfo, mentre, senza scorta e con la loro auto, facevano rientro a Palermo.

In base alla sentenza che ha condannato al carcere a vita sicari e mandanti, Livatino è stato ammazzato perché “perseguiva le cosche mafiose impedendone l’attività criminale, laddove si sarebbe preteso un trattamento lassista, cioè una gestione giudiziaria se non compiacente, almeno, pur inconsapevolmente, debole, che è poi quella non rara che ha consentito la proliferazione, il rafforzamento e l’espansione della mafia”.

“Martire della giustizia e della fede”

Giovanni Paolo II lo definì “martire della giustizia e indirettamente della fede”, quando da Agrigento il 9 maggio del 1993, aggrappato al Crocifisso, lanciò il suo grido di pastore e profeta, in un contesto dilaniato dalle stragi e dalle faide di mafia e caratterizzato da posizioni ancora troppo timide da parte delle istituzioni, Chiesa compresa. Poco prima Wojtyla aveva incontrato i genitori di Livatino, papà Vincenzo, laureato in legge e pensionato dell’esattoria comunale, e la mamma Rosalia Corbo.

Per don Giuseppe Livatino, primo postulatore del processo di beatificazione nella Diocesi di Agrigento, apparve “subito chiaro che la storia e il miracolo di Rosario Livatino non rispondevano al cliché del ‘giudice ragazzino‘ che va incontro alla morte senza sapere e capire”. Livatino affronta “il sacrificio supremo nella piena consapevolezza perché erano già chiare le indiscrezioni che circolavano nell’estate del 1990”. Il sacerdote richiama soprattutto due episodi: “L’ultima frase, prima del colpo di grazia, guardando in faccia gli assassini che lo avevano inseguito: ‘Piccio’, che cosa vi ho fatto?’. Li richiama. Aziona l’arma del dialogo. Lascia un quesito che germoglia e lentamente portera’ chi spara a pentirsi”.

“Giustizia è redimere che sbaglia e reinserirlo nella società”

“Nel corso di un regolamento di conti, un boss mafioso viene colpito a morte. A un ufficiale dei carabinieri tutto soddisfatto e gongolante accanto a quel corpo senza vita, Livatino dice: ‘Di fronte alla morte chi ha fede, prega; chi non ce l’ha, tace!’“. Per il religioso, Livatino e’ stato un giudice “giusto” in quanto “alla legge bisogna dare necessariamente un’anima, sosteneva. Spiegando che l’obiettivo della giustizia è redimere chi sbaglia e reinserirlo nella società civile“.

Livatino conseguì la laurea in Giurisprudenza all’Università di Palermo il 9 luglio 1975 a 22 anni col massimo dei voti e la lode. Nella sua attività si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la ‘Tangentopoli siciliana‘ e aveva colpito duramente la mafia di Porto Empedocle e di Palma di Montechiaro, anche attraverso la confisca dei beni. La sua storia è stata raccontata da Nando dalla Chiesa nel libro “Il giudice ragazzino”, titolo che riprende la definizione di Francesco Cossiga. “Livatino e la sua storia – scriveva Dalla Chiesa – sono uno specchio pubblico per un’intera società e la sua morte, più che essere un documento d’accusa contro la mafia, finisce per essere un silenzioso, terribile documento d’accusa contro il complessivo regime della corruzione”.

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Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.