A Baggio, periferia ovest di Milano, squarci di luce illuminano i volti di chi si arrabbatta faticosamente per vivere, per campare; di quelli che deandreianamente “per tirare avanti, sono costretti a vendere Cristo ed i santi”. A Baggio lui è nato e ha vissuto, prima di diventare un regista pluripremiato, autore di “Spes contra Spem”: manifesto contro la mafia, secondo il ministro della giustizia Andrea Orlando.

Il buio e gli squarci di luce di Baggio, un gioco di caini e di speranze, se li è portati però dentro tutta la vita. Se nasci a Baggio, non nella Milano da bere, devi chiamarti per forza Ambrogio. Proprio come il santo protettore di Milano che fece in fondo di tutto per non diventare vescovo, perché non nascesse un rito, foss’anche ambrosiano. Forse sapeva quel santo, a cui si rivolge la genuinità del popolo milanese, che i ruoli ed i riti possono imprigionare la vita, impedire che il fiume eracliteo scorra. Se ci si bagna sempre nella stessa acqua, anche le cose migliori diventano infatti acquitrini, paludi: un pantano di teoremi, assiomi, verità apodittiche.

Ambrogio Crespi, distrutto ma non sconfitto, come ne “il vecchio ed il mare” di Hemingway che ha portato sotto il braccio varcando i portoni del carcere di Opera, ritorna oggi da detenuto in quel luogo di luci ed ombre, vita e lutto, squarci di cambiamento nel muro della irredimibilità. È finito in galera perché è stato compiuto un delitto passionale, sanguigno, terribile nella banalità della sua perfezione. È stato condannato a 6 anni di carcere per mafia, senza prove. Qualche anno dopo le elezioni regionali lombarde alcuni mafiosi parlano di lui, dicono che ha chiesto loro dei voti per altri, ma il suo accusatore chiede scusa, come ai tempi di Enzo Tortora: ha millantato di conoscerlo per accrescere il suo peso nel mondo criminale.

Quello di Tortora fu però un delitto imperfetto perché la cassazione disse giustizia, quello di Crespi è un delitto invece classico, apollineo, perfetto. Se Crespi vuole che un giudice “dica” e non “faccia” giustizia deve cercarlo letteralmente a Berlino: guardare semmai alla revisione, alla corte europea dei diritti dell’uomo. La cassazione non è riuscita questa volta ad arginare un rito dogmatico, incontestabile, che viene dalla mecca della giurisdizione italiana: quello ambrosiano. È un sillogismo aristotelico. La premessa maggiore è che i giudici che hanno sostenuto l’accusa e condannato Ambrogio Crespi siano in buona fede. Una fede talmente buona da diventare mostruosa. Come lo era quella che, negli anni di tangentopoli, proprio sotto la statua di Sant’Ambrogio, disegnò hegelianamente nella notte nera tutte le vacche nere, liquidando i partiti della repubblica, a guisa dei colpi di stato manu militari.

Come lo era quella di chi, Ilda Boccasini, dopo la morte di Falcone, trucidato dal consiglio superiore della magistratura, strappò le tessere di correnti e blasoni di appartenenza, ma finì poi per confondere Ambrogio con il fratello Luigi, reo quest’ultimo di esser stato il sondaggista di Berlusconi. Il rito ambrosiano ha sposato la missione salvifica di abbattere il berlusconismo che era questione politica non giudiziaria. È una storia di buona fede, di giudici che volevano un mondo migliore, una società dei giusti, una palingenesi catartica. Una storia di passione per la verità e la giustizia che quando diventa rito si spinge sempre da Atena ad una carnezzeria. Come nella rivoluzione francese quando libertà, uguaglianza, fraternità, divennero caduta di teste, sangue, terrore. Alfonso Giordano, presidente onorario della cassazione il quale ha curato la prefazione del “caso Crespi” di Marco del Freo, ha scritto che quei giudici in buona fede “non sono riusciti a rifuggire la passione che maschera la realtà”. La premessa media del sillogismo è diventata allora una mascariata, un mascariamento. Lo stato di diritto nasce invece per far in modo che la passione non diventi morbosa, che chi giudica non faccia campagna per un mondo migliore, ma applichi la norma astratta e generale al caso concreto.

È la giustizia di Beccaria, di Montesquieu, di Silvio Spaventa, di Marco Pannella. È la giustizia dei tribunali e non dei tribuni che amministrano i sacramenti in nome del popolo, che diventano chierici. Nello stato di diritto non c’è spazio per dogmi e sacramenti, si guarda all’accertamento, non alla verità. Non ci avevate forse insegnato, signori giudici, “in dubbio pro reo”, nel dubbio si giudica in favore dell’imputato? La conclusione di questo sillogismo di passione e buona fede è stata illogica, funerea: la messa a morte della nostra civiltà. Questa è una giustizia che non si fonda sulla prova ma sul sospetto che è “non anticamera della veritá ma del komeinismo”. Lo diceva Giovanni Falcone, trattato vivo da morto ma citato ad ogni inaugurazione di anno giudiziario. È vero: avete fatto tutto questo con passione e “nulla di grande al mondo è stato fatto senza passione”. Nella Orestea di Eschilo, a cui si rifà magistralmente il ministro Marta Cartabia, anche le erinni agivano però con passione. Lo stato liberale si fonda sulle eumenidi, sul giusto processo anglosassone, che è cosa totalmente diversa. Oggi questo delitto passionale perfetto meriterebbe la grazia del presidente della repubblica. Rivolgersi al re, al garanta della costituzione? Si, se un potere, per quanto appassionato ed in buona fede, è legibus solutus. Quando ci saranno limiti, garanzie, quando la passione del potere ed il potere della passione conosceranno il loro limite, pasolinianamente(forse) otterranno perdono.