Ammirare i lavori di Paolo Pellegrin significa fare i conti con gli orrori della storia contemporanea. Significa aprirsi a una dimensione di consapevolezza della realtà che non ammette scuse o distrazioni. E allo stesso tempo significa affacciarsi a un mondo intensamente umano, espressivo, appassionato, e trovare nella disumanità e nella miseria del conflitto anche la grandezza dell’uomo, la sua poesia, la sua contraddittoria bellezza. Aperta da oggi fino al 7 gennaio 2024 nella bella sede delle Stanze della Fotografia, sull’Isola di San Giorgio Maggiore a Venezia, la mostra “L’orizzonte degli eventi” propone oltre 300 scatti di uno dei fotografi italiani più celebri al mondo, i cui lavori spaziano dai servizi sulla guerra in zone come Iraq e Gaza a quelli dedicati alle problematiche ambientali, come lo tsunami in Giappone e gli incendi in Australia, fino alle immagini dell’Antartide, che testimoniano il drammatico cambiamento climatico in corso.
Una serie di immagini emozionanti e dolorose, che coprono un arco di tempo ampio, dal 1995 a oggi, compreso un reportage esposto per la prima volta al pubblico sull’attuale conflitto ucraino.
«L’orizzonte degli eventi, in fisica, è la zona teorica che circonda un buco nero, un confine oltre il quale anche la luce perde la sua capacità di fuga; attraversato questo confine, un corpo non può più andarsene e scompare del tutto dalla nostra vista. L’espressione ‘orizzonte degli eventi’ si riferisce quindi all’impossibilità di assistere a un qualsiasi avvenimento che si svolge oltre quel confine», spiega Annalisa D’Angelo, curatrice della mostra con Denis Curti. Il mezzo di Pellegrin per oltrepassare l’orizzonte è la fotografia, grazie alla quale crea «un ponte emozionale capace di trasmettere, sotto forma di immagine, le vivide ferite della vicenda», come scrive Curti in un saggio del catalogo edito da Marsilio Arte.
«Per Pellegrin la fotografia è mettere in discussione presunte verità per contribuire alla costruzione di un linguaggio inscatolabile fatto di grammatiche diverse e innovative», prosegue Curti. «Il tema dell’incontro con gli altri diventa il tema delle sue immagini. La sua è una fotografia di denuncia e di racconto che spazia all’interno di tematiche riguardanti le condizioni di vita altrui, dalla povertà alla violenza, fino alla fragile maestosità della natura».
Così in mostra si trovano lo scatto compassionevole e discreto che ritrae un gruppo di Peshmerga in lacrime per la morte di un compagno, quello della spossante, sfinente attesa dei rifugiati sull’isola di Lesbo, quello devastante di una madre che ha perso il proprio figlio ucciso dalle forze di difesa israeliane a Jenin; ma anche la leggerezza di Emma, una bimba che corre in un campo in Svizzera, o quella di Angelina, un’altra bimba stavolta a Roma, o ancora la pacata presenza di un capannello di iraniani al parco per le celebrazioni del trentesimo anniversario della Rivoluzione. In tutte, da quelle sui prigionieri di Guantanamo a quelle sugli effetti del Covid in Italia, si riconosce la mano del grande maestro che tende una mano, che partecipa e che condivide. Come lui stesso ha avuto modo di dire: «Entrare in quei momenti, per un fotografo, è avere il privilegio di essere ammesso in uno spazio sacro: il prezzo è la responsabilità gigantesca di farne buon uso».
La mostra non segue un ordine cronologico, ma rispecchia le modalità di lavoro di Pellegrin che cerca di trasmettere pluralità di punti di vista e sceglie di volta in volta modalità differenti per raccontare le sue storie, decidendo sempre e comunque di portare speranza, di dare un senso di comunione e vicinanza se almeno non di soluzione a ciò che mette sotto gli occhi dell’osservatore. Per questo il filo rosso dell’esposizione, così come di tutto il suo lavoro, è quello della comunicazione, dell’apertura verso l’altro, che si tratti di persone come di ambiente, ricollocando ogni evento nel sistema relazionale per dargli significato.
La mostra è anche evento collaterale della Biennale della Sostenibilità 2023 “L’era del Mose”.
