Poco prima della pandemia ho iniziato a interessarmi all’idea antica della felicità – la felicità che per Aristotele è una forma di eccellenza, perfetta in sé e autosufficiente, e che appare così diversa, nelle testimonianze superstiti delle dottrine ellenistiche, dall’immagine che ne coltiviamo oggi. Tendiamo a identificare la felicità per lo più con un momento di serenità o spensieratezza, strappato alla prosa seriosa della vita “vera”. Mi ha sempre colpita la rappresentazione della felicità come un istante un po’ naïf, una concessione allo scalpiccio della voglia di vivere negli interstizi tirannici del tempo.
Un batter d’occhio, o un battito d’ali, sospeso fra rimorsi e rimpianti per il costo che la felicità può avere, per quel che si paga a lasciarsi cogliere con la guardia abbassata. Perdoniamo la felicità solo alla giovinezza, convinti come siamo che si tratti di un’illusione destinata a farsi spazzare via man mano che si scoprono le asperità dell’esistenza. Eppure, anche se l’associamo alla spensieratezza, se non addirittura alla sventatezza; anche se pensiamo che diventare vecchi ci renda saggi ma non felici, la nostra società è ossessionata dalle manifestazioni esteriori di questa imprendibile felicità. Un vero supplizio di Tantalo: cresciamo, comprendiamo il mondo, impariamo a desiderare la felicità, apparentemente a portata di mano, sotto forma di rapidi istanti di perfezione; ci sfugge, perché ormai sappiamo quali ombre si allunghino attorno a quelle piccole oasi serene, e così continuiamo a bramarla sentendola impossibile.
Avevo, almeno, quest’impressione, seguendo sui social, soprattutto su Instagram, il destino degli innumerevoli hashtag dedicati alla vita felice (#happy, #happyness, #happylife, #happypeople e chi più ne ha più ne metta), o parlandone con le persone che incontravo e che provvedevo a interrogare, come in una versione molto approssimativa dei Comizi d’amore di Pasolini. Io stessa mi rendevo conto, mentre tentavo di studiare la felicità dalla prospettiva degli antichi, di essere impigliata, con la testa e con il cuore, nell’equazione fra gioia e ingenuità, il cui rovescio era un’immagine della saggezza – e della vita e del ruolo dell’intellettuale – che sarebbe un complimento definire punitiva. Se per essere felici non bisogna saper nulla, chi studia è destinato a un’esistenza grama, a un’austera rassegnazione. Quest’idea in qualche maniera mi addolorava: avevo studiato per anni le teorie di Spinoza, per cui la gioia è la forma più alta e più compiuta della conoscenza, come potevo rassegnarmi a pensare che l’alternativa fosse fra capire e vivere? Perché io volevo capire, o almeno provarci; ma volevo, anche, innegabilmente, essere felice.
Ma per fortuna mi sono resa conto, tornando ai testi degli antichi, di quanto cambi tutto se proviamo a immaginare la felicità, proprio come facevano loro, come una forma di “areté”: ovvero, una manifestazione della capacità di qualsiasi essere vivente di assolvere bene il proprio compito, di rispondere al proprio destino; una virtù, in altre parole. Forse meglio ancora, possiamo pensarla come un modo di accrescere la forza con cui esistiamo, ovvero con cui siamo immersi nella rete causale di tutto quel che avviene intorno a noi: più comprendiamo questo legame profondo, più cresce la nostra gioia di vivere e conoscere: insomma, possiamo seguire Spinoza, che a modo suo, pur da una lontananza di secoli, portò avanti una tradizione antica.
Troppo spesso il legame costitutivo fra emozioni e conoscenza, fra quello che sentiamo e il modo in cui comprendiamo le cose, viene rimosso, ignorato, trascurato. È anche per questo che sono felice – di una felicità che partecipa dell’accrescersi delle mie conoscenze, intendo, naturalmente – del fatto che in questi giorni approdi su RaiTre una docu-serie in sei episodi che è un esperimento interessante e particolarmente utile in questo tempo di permacrisi, in cui ci pare di saltare dalla padella alla brace a ogni aggiornamento delle notizie dal mondo, e il contatto con le nostre emozioni è mediato da quelle piccole tiranniche fornaci di egocentrismo che sono i social, che ci strattonano fra la spinta a esibire gli stati d’animo più fotogenici e quella a nascondere i dolori che ci mettono a disagio, salvo ostentarli a fini ricattatori.
È una liberazione, in questo contesto, sentir parlare con intelligenza di amore e rabbia, orgoglio e paura, felicità e tristezza, come succede appunto nelle sei puntate de “L’arte della felicità”: una coproduzione fra Mad Entertainment e Rai Documentari, che avvalendosi del contributo di Rai Teche attinge a un patrimonio audiovisivo inestimabile: testimonianze di un passato già lontano ma improvvisamente vicino, che rispondono agli interventi delle esperte e degli esperti intervistati in un dialogo a distanza su cosa sia – e come, pur cambiando, rimanga sempre identica – la condizione umana, con i suoi piccoli ricatti e i riscatti, i suoi compromessi e i suoi dolori, gli slanci e le censure, le gioie e gli afflati e le stanchezze.
