Vi è un luogo di sospiri che fanno tremare l’aria eterna. Un dolore insopportabile per l’eternità, non provocato da pene fisiche, ma insostenibile nell’animo. Un malanimo che sale da una folla addolorata «d’infanti e di femmine e di viri». Gente che «sanza speme vive in disio» e che staziona nel luogo più buio della Divina Commedia, gente di molto valore «che ’n quel Limbo eran sospesi». Il Limbo, dal latino limbus “orlo, bordo”; di più non sappiamo di questa parola di origine sconosciuta.

Un bordo, un margine, un orlo, un limite. Un al di qua e un al di là del fiume Acheronte, le acque destinate per l’eternità a separare il mondo dei vivi dagli inferi. Una soglia che ha rappresentato, in tutte le culture del mondo occidentale, la transizione dalla vita alla morte, il primo viaggio senza ritorno verso l’Oltretomba. Il termine e il luogo non li ha coniati Dante, anche se all’inizio del Trecento il Limbo era stato inventato da poco. Questo inferno più mite, maturato a partire dall’espressione limbus inferni usata dai teologi occidentali alla fine del XII secolo, racconta il «destino dell’umanità non battezzata ma innocente: un’umanità il cui statuto divenne così residuale» come scrive Chiara Franceschini nella sua imponente e documentata Storia del limbo, da Agostino a Lutero.

La teologia scolastica concettualizza il limbo dei padri (limbus patrum) e il limbo dei bambini (limbus puerorum). Il limbo non fu una invenzione da poco, perché aiutava a risolvere la difficoltà secolare del mondo cristiano di decifrare l’anomalia della morte senza battesimo, dai neonati innocenti alla «gente di molto valore», dai profeti dell’Antico Testamento ai grandi dell’antichità. In un sol colpo rasserenava la nevrosi ossessiva dei credenti che finalmente trovavano una risposta a interrogativi insormontabili (che poi tali sono rimasti) sulla storicità della figura di Cristo. Che fine avrebbero fatto tutti quelli che per motivi geo-anagrafici non avevano avuto occasione di essere cristiani? Un dubbio lancinante nella logica consequenziale dei credenti.

Inferno, purgatorio o paradiso? Nessuno dei tre, ma un quarto aldilà, dove collocare i buoni non-cristiani, non-battezzati, morti dopo una vita esemplare, tanto da non dannarsi, ma senza il requisito irrinunciabile per aspirare al Paradiso. Una collocazione geniale che sistemava in un colpo solo passato e presente e incentivava in maniera formidabile quel rimedio rappresentato dal battesimo in minore età. Da allora, consenzienti e non consenzienti, ci si iscrive appena possibile all’anagrafe dei beati. La questione, in realtà, viene da lontano e non è una prerogativa della teologia medievale.

Lo stesso Virgilio, che rimane pur sempre l’intellettuale di riferimento, sul Limbo fa da apripista e descrive bene l’infelice condizione dei bambini nell’Ade nel sesto libro dell’Eneide. Enea, accompagnato dalla Sibilla, supera il fiume Stige e ode il lamento di quei neonati che una funesta sorte ha portato alla tomba. Il “limine primo” virgiliano è una regione speciale dell’Oltretomba dove sono sistemati i bambini, quando «un nero giorno li strappò, privi della dolce vita e, rapiti dalla poppa, li sommerse con morte acerba». Insomma il Limbo non lo ha inventato Dante, ma sono le sue parole a configurare il concetto che ce ne siamo fatti. Non vi è dubbio che il modo in cui usiamo questa parola è condizionato in maniera decisiva dai versi nel IV canto dell’Inferno della Divina Commedia.

Una immagine ben consolidata nel senso comune e nella consapevolezza collettiva, durata ben sette secoli, fino allo sfratto dei giusti dal nobile castello sulle rive dell’Acheronte decretato dal documento papale di Benedetto XVI del gennaio 2007 che lascia cadere quella che è sempre stata soltanto “un’ipotesi teologica”, dopo il rapporto di 41 pagine della Commissione teologica internazionale dal titolo La speranza della salvezza per i bambini che muoiono senza battesimo. Un “problema pastorale urgente” perché i casi sono “in aumento” e riguardano anche le “vittime di aborti”. La tramandata immagine di un luogo dove i non battezzati vivono per l’eternità, privati della comunione con Dio, inaridisce il cuore: «la Grazia ha priorità sul peccato». La chiesa spera addirittura in una soluzione più comprensiva, perché un quarto aldilà riflette una «visione eccessivamente restrittiva della salvezza». Comunque non è facile privarsene del tutto, perché si tratta pur sempre di «motivi di speranza nella preghiera, e non di elementi di certezza».

La chiesa dunque lo abolisce, ma non lo sostituisce. Il Limbo è stato escluso dalle verità di fede, ma non esce definitivamente di scena e continua a dar forma al nostro immaginario. La visione del «primo cerchio che l’abisso cigne» rimane potente e soprattutto indimenticabile. Non tanto la descrizione del luogo e delle sue caratteristiche, quanto la situazione dei suoi ospiti. Dante coraggiosamente si schiera a favore della salvezza dei pagani e degli infedeli disinteressati vissuti anche dopo il sacrificio di Cristo. Relega al margine i bambini e pone al centro i non cristiani virtuosi.

Ma tralasciamo i tanti particolari che hanno eccitato il voyeurismo dei lettori sulla passerella di celebrità che stazionano ai confini del mondo dei morti e occupiamoci della loro condizione interiore rileggendo i versi di Dante.
«Per tai difetti, non per altro rio,/ semo perduti, e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio/ Gran duol mi prese al cor quando lo ’ntesi,/ però che gente di molto valore/conobbi che ’n quel Limbo eran sospesi».
La rappresentazione dantesca non descrive una condizione fisica, di dolore, ma psichica, di attesa. La chiave sta proprio nell’aggettivo “sospeso”, parola ripetuta nella Commedia sempre per le anime del Limbo, e che rimane risolutiva nel nostro modo di immaginarlo.

Una sospensione atemporale, una incertezza permanente, un’attesa irrimediabilmente perduta. Una aspettativa sfiduciata della futilità di ogni speranza. Forse lo stoicismo degli antichi ci aiuta a comprendere il malessere di questa disperazione perché, come scrive Seneca, «i mali incerti sono quelli che ci tormentano di più». Le incertezze delle anime dei giusti che popolano il Limbo ci sono vicine e comprensibili; avvertiamo nei loro lamenti e nei loro sospiri qualcosa di molto terreno e di molto umano. Sentiamo l’insicurezza delle anime dei giusti vicina alla nostra inquietudine e nessuno è riuscito a spiegarlo meglio di Blaise Pascal: «Sempre in balia dell’incertezza, spinto da un estremo all’altro, l’uomo sente la sua nullità, la sua disperazione, la sua insufficienza, la sua dipendenza, la sua debolezza e salgono immediatamente dal profondo del suo cuore la noia, la melanconia, la tristezza, il cattivo umore, l’irritazione, la disperazione».

È questa l’immagine del Limbo che sopravvive nella contemporaneità, l’età dell’instabilità in cui tutte le verità vacillano e tutte le certezze si incrinano, l’epoca di «limbes insondés de la tristesse» nelle parole di Baudelaire che voleva intitolare proprio Les limbes la sua raccolta di “fiori del male”. Siamo noi «color che son sospesi» nel limbo dell’incertezza, alla ricerca di una felicità stabile che – come ha scritto il teorico della società liquida Zygmunt Bauman che proprio all’età dell’incertezza ha dedicato uno dei suoi saggi più belli – «sembra rimanere costantemente a una certa distanza da noi: come un orizzonte che, come tutti gli orizzonti, si allontana ogni volta che cerchiamo di avvicinarsi a esso».

E oggi più che mai sospiriamo malinconici, vinti da speranze vane e desideri insoddisfatti, prigionieri di un mondo sospeso e in attesa di un futuro fosco. Il nostro limbo assomiglia sempre di più alla descrizione della voragine infernale dantesca: «Oscura e profonda era e nebulosa, tanto che, per ficcar lo viso a fondo, io non vi discernea alcuna cosa».
Nel nostro «nobile castello sette volte cerchiato d’alte mura» ha «un bel fiumicello» e «un prato di fresca verdura», ma fuori l’orizzonte è avvolto da una fitta nebbia, sempre più impenetrabile. Il lamento sale dai nostri smartphone e si diffonde nell’etere: la pandemia ci ha inchiodato in una condizione impotente e “sanza speme”, ha condannato un’intera generazione a un’inguaribile e languida forma di depressione.

A proposito di stati depressivi, non è un caso che proprio ad apertura del testo più celebre della psicanalisi, Sigmund Freud elegga Virgilio a tutore del suo viaggio nella psiche umana, ponendo a esergo de L’interpretazione dei sogni un verso dell’Eneide: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo»: «Se non potrò piegare gli dei celesti, muoverò l’Acheronte». Il messaggio è chiaro. Il Limbo esiste ancora ed è affollatissimo. Solo che dall’epoca di Dante si è spostato il fiume, dall’aldilà dei morti all’al di qua dei vivi. I lamenti e i sospiri provengono da noi, il Limbo è casa nostra.