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L’ultimo vaticinio di Davigo e il boomerang temporale. Le microspie, i soldi tracciati e l’archiviazione: è già accaduto 20 anni fa
L’ultimo vaticinio di Davigo, paradossalmente, ha prodotto l’effetto del boomerang temporale, facendomi tornare indietro di vent’anni, a quando la Procura di Roma, indagando per corruzione giudiziaria l’allora Presidente dell’ottava sezione penale del Tribunale di Napoli, con funzioni di Riesame, ne chiedeva l’interdizione dalle funzioni. A quei tempi i Giudici partenopei ponevano grande attenzione all’ordinanza cautelare, verificando scrupolosamente il rispetto dei requisiti previsti dal codice di rito, effettuando un attento esame critico della motivazione e approfondito degli atti. Un giudice, dunque, rispettoso delle regole e che mai si appiattiva, appassionandosi, alle tesi della Procura. Quella Sezione interpretava le norme cautelari nel rispetto della Costituzione; come quando, per prima, ritenne che i periodi di custodia cautelare subiti dall’indagato in altre fasi del procedimento dovessero essere considerati nel calcolo complessivo dei termini massimi di durata della cautela. Un’interpretazione oggi pacifica, che allora si contrapponeva a quella della Procura e della stessa Corte di Cassazione, che venne poi confermata dalla sentenza 299/05 della Corte Costituzionale. Tra i beneficiari di quell’orientamento, nel 2001, ci fu uno dei capi di una delle più feroci famiglie camorristiche della Città che, successivamente, decise di collaborare con la giustizia. Quel preteso contrasto divenne allora uno degli elementi cardine dell’accusa mossa al Presidente.
Le domande al clan dei camorristi
Le domande che i P.M. posero al camorrista furono: “Cosa ci dice dei giudici che erano a busta paga del suo clan?” e ancora: “Cosa sa dei soldi che venivano corrisposti ai giudici del riesame per far scarcerare i camorristi?”. Ponendole in modo suggestivo, al delinquente venne mostrata la strada per ottenere un vantaggio. Implicitamente gli si offriva qualcosa di prezioso: la libertà, da scambiare con una menzogna. Ma il camorrista, in quel caso, aveva anche l’occasione per vendicarsi di chi, poco prima, presiedeva il Collegio che lo aveva condannato a più di venti anni di reclusione. Fu come se i P.M. lo armassero e quello, da delinquente qual era, premette il grilletto.
Le microspie, i soldi tracciati e l’archiviazione: è già accaduto 20 anni fa
Per tornare alle cupe parole predittive di Davigo, l’indagine contro il Presidente ebbe tre momenti topici: l’installazione di sei microspie nella camera di consiglio, dimenticate per oltre un anno dopo la scadenza del termine di intercettazione; un esame patrimoniale con accertamenti accurati sui conti correnti dell’indagato; una perquisizione domiciliare presso l’abitazione del Presidente e negli uffici della sua sezione che, a rileggere le parole di uno dei giudici della sezione, che fu redattore di quel provvedimento senza mai essere indagato, venne eseguita come uno show il “22 luglio del 2005, con il Procuratore aggiunto H, che indossava una vistosa pistola nella cintola dei pantaloni ed i giornalisti (preavvisati da chi?) in attesa nei corridoi degli uffici del Tribunale del riesame” e servì, quasi cinque anni dopo i fatti, a far sì che la notizia si diffondesse spettacolarizzando il caso. La sfortuna volle che una importante somma di denaro, apparentemente corrispondente a quella che il pentito aveva dichiarato di avere corrisposta per il Giudice, venne davvero rinvenuta sui conti del Presidente; ma si trattava di una somma tracciata, che l’indagato aveva ricavato dalla vendita di un immobile precedentemente ereditato (il Presidente appartiene a una nota famiglia di notai di Sorrento).
Gli inquirenti non si dettero per persi e chiesero al GIP di disporre una perizia per accertare se l’atto di vendita non fosse stato redatto successivamente alla data in esso riportata (con conseguente falsità della trascrizione e registrazione dell’atto stesso). I periti non poterono far altro che attestare: “Alla luce degli accertamenti effettuati si può affermare che presso gli studi dei Notai X e Y sono stati reperiti documenti di data certa, coevi ai documenti in esame, redatti su carta Miliaflex le cui caratteristiche di stampa corrispondono esattamente a quelle rilevabili sui documenti in questione”. La questione si chiuse dopo diversi anni con un’archiviazione, e per molti l’indagine servì a intimorire quei giudici che sentivano il dovere di adottare le loro decisioni con uno spirito libero, perché davvero terzi e imparziali rispetto alle pretese di altre Autorità, P.M. compresi. Molti di loro lessero in quell’azione violenta un’intimidazione alla giurisdizione e alcuni si dimisero, altri chiesero il trasferimento ad altra sede giudiziaria; qualcun altro, per il dolore di essere sospettato, dapprima si ammalò gravemente e poi ne morì. Il compianto Procuratore Generale dell’epoca, il dott. Vincenzo Galgano, sull’indagine ebbe a dire: “Credo ci siano finalità concorrenti rispetto a quelle giudiziarie”. Al quale fece eco il Giudice che redasse il provvedimento incriminato: “In questa indagine di chiacchiere ce ne sono state tante e di fatti pochi. Di fatti concreti e riscontrati non vi è nemmeno l’ombra. Emerge una vera e propria orchestrata complicità tra inquirenti infedeli, che hanno divulgato atti che dovevano rimanere segreti e i giornalisti, che hanno pubblicato le sole parti che hanno deciso di divulgare. Tale connivenza è davvero inquietante”.
Mario Pagano ha scritto che “il timore attacca la libertà nella sua stessa sorgente”; per tornare alla falsa previsione, separare le due carriere, quella del Giudice e del P.M., è diventata una necessità irrinunciabile, prima che quei timori diventino una minaccia irrimediabile alla libertà e all’indipendenza del giudice.
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