Il caso che stimola queste poche riflessioni è la sentenza di Torino che, condannato l’imputato per lesioni nei confronti della moglie e di alcuni suoi familiari, lo ha invece assolto dal più grave reato di maltrattamenti in famiglia contestatogli dalla procura. Facciamo prima la tara. In un tempo in cui criptiche alchimie giuridiche hanno determinato l’introduzione di figure di reato come il femminicidio e collazionato pene e procedure speciali in raccolte dal vivido colore carminio, non è da stupirsi che tutti i giuristi nostrani (secondo le ultime stime degli istituti statistici più accreditati quasi 60 milioni, come sempre del resto) insorgano per lo scempio, additando variamente il giudice autore del misfatto e censurando, invero da prospettive ignote, una sentenza che, impudicamente, nemmeno nascondono di non aver letto. Ma questa è una tara appunto e, come tale, non la contiamo nella pesata della questione.
Poi però c’è la sostanza, il peso netto; e qui la cosa si complica perché l’obiettivo che ci siamo posti, oltre che di capire, è anche quello di provare a comunicare a chi non naviga questi mari ciò che è realmente accaduto. Per fare questo, la sentenza invece è stata necessario leggerla. E quello che la sentenza racconta – foss’anche con le indulgenze linguistiche di cui vi dice Benevieri da queste colonne – è che un collegio, nell’esercizio della giurisdizione, ha acquisito delle prove in un articolato contraddittorio e le ha raccontate ordinatamente e che, siccome queste prove hanno restituito una ricostruzione dei fatti non conforme al quadro dipinto dall’accusa in merito al reato di maltrattamenti, come la legge impone, quel collegio ha assolto l’imputato per quel reato.
Non spetta a nessuno commentare il contenuto decisorio della sentenza di un processo pendente e men che mai a chi, nemmeno avendone le competenze, non abbia contezza perfetta degli atti processuali; e poiché anche noi difettiamo di almeno uno dei due requisiti, non la commentiamo, ché finiremmo col fare il gioco del nemico. Ma gli eventi che hanno ruotato attorno alla decisione invece vogliamo commentarli almeno un poco, perché raccontano molto dell’umore del discorso pubblico sulle cose della giustizia.
Raccontano, ad esempio, che viviamo in un paese che si indigna a senso unico, solo quando cioè un giudice assolve; giammai quando condanna, salvo, in questo caso, per la ritenuta scarsezza della pena. E di questa stortura non possiamo che trovare una radice (almeno una) nella narrazione distorta che della giustizia si è offerta e si continua imperterriti ad offrire alla collettività, una narrazione fatta di colpevoli che l’han fatta franca, di anni di galera come di pause sabbatiche di riflessione, di avvocati prezzolati il cui unico scopo è buttare la palla in tribuna, di pubblici ministeri paladini della giustizia e di giudici, appunto, che se non concordano con l’accusa meritano aspra censura.
Raccontano pure, per dirne un’altra, che la maturità politica sul tema della giustizia è da noi all’anno zero, ibernata dal senso comune corrente (il buon senso, passato dalla paura al terrore, è scappato proprio), il quale, radicalizzati sociologicamente i ruoli della vittima e del carnefice, ha poi preteso di proiettarli così come sono anche nel processo penale, prima ancora che i fatti siano accertati. È dunque quasi naturale che se una sentenza vìola quel canone acquisito si arrivi a immaginare la convocazione in Parlamento del giudice che la ha emessa perché ne renda conto. Non stupiamoci però, perché nell’anno zero appunto, è normale che non si percepisca il baratro nel quale si rischia di cadere perdendo l’equilibrio sul sottilissimo crinale che separa due poteri dello Stato.
Raccontano – infine, ma solo per ragioni di spazio – che la tutela della giurisdizione può diventare un concetto vago, declinabile alla bisogna con robustezza varia: dal calcestruzzo della barricata contro la separazione delle carriere, al muro a secco, basso e traballante, eretto con qualche titubanza dalla giunta sezionale Piemonte e Valle D’Aosta di ANM – quella nazionale non è proprio pervenuta – in un tiepido comunicato che presagisce addirittura gradi successivi del giudizio, poi puntualmente confermati da Cesare Parodi, coordinatore del dipartimento della procura di Torino che ha investigato sul caso, in diretta televisiva. Che sia pure il presidente dell’ANM pare non conti.
E così, a difendere, non la sentenza – che, ripetiamo, non si commenta negli approdi – ma la giurisdizione in sé come caposaldo della convivenza civile e, con essa, la piena autonomia di chi la esercita, resta – guarda tu a volte le cose della vita! – la Camera penale di Torino e l’Unione delle Camere Penali italiane; insomma, gli avvocati. Quegli stessi strani figuri che prospettano la necessità delle carriere separate, anche per garantire che il presidente di ANM, un pubblico ministero, possa dire ciò che vuole e quando vuole mentre il giudice che ascolta, nello stesso momento, possa infischiarsene. D’altro canto, messa così, hai voglia a girare video e mandarli sui canali social, le barricate ideali di ANM di fronte alla separazione delle carriere acquistano un sapore artificiale, come i coloranti nelle caramelle di quando eravamo ragazzini, che ci sembravano buonissime, ma facevano male, anche se nessuno l’aveva ancora capito.
