Al Meeting di Comunione e Liberazione di Rimini Giorgia Meloni si è presentata come leader cattolica e moderata, una democristiana 2.0: conservatrice, atlantista, attenta a non farsi schiacciare sulla retorica sovranista che l’ha accompagnata fino a Palazzo Chigi. Ha scelto il palco dei ciellini per compiere un’operazione di riposizionamento: più Merkel che Orbán, più erede della tradizione democristiana italiana ed europea che del sovranismo esasperato.

Il messaggio è passato attraverso le parole sul conflitto mediorientale. «Non abbiamo esitato un solo minuto a sostenere il diritto all’autodifesa di Israele dopo l’orrore del 7 ottobre», ha detto la premier, salvo precisare che oggi «non possiamo tacere di fronte a una reazione che è andata oltre il principio di proporzionalità mietendo troppe vittime innocenti, coinvolgendo anche le comunità cristiane». Un equilibrio difficile, che Meloni ha gestito con la doppia sottolineatura: condanna di Hamas e richiesta di pressione internazionale per il rilascio degli ostaggi; allo stesso tempo appello a Israele perché fermi gli attacchi a Gaza, interrompa l’espansione dei coloni e consenta l’accesso degli aiuti umanitari. Il tratto moderato è apparso anche nella contrapposizione implicita con l’opposizione. «C’è chi si limita a urlare slogan e chi, invece, salva bambini. Io sono orgogliosa di appartenere ai secondi» ha scandito Meloni. A stretto giro è arrivata la replica del Pd: «Salvare bambini è un dovere, non un vanto» ha risposto Sandro Ruotolo, che è tornato a chiederle il riconoscimento dello Stato di Palestina e l’embargo delle armi verso Israele. Ma la presidente del Consiglio non ha abbandonato la postura istituzionale: l’Italia, ha rivendicato, è «la nazione europea che si è spesa di più» per la crisi umanitaria.

Meloni ha dunque mostrato una versione nuova di sé: leader che tiene insieme la coerenza atlantista, la fedeltà alla tradizione cristiana e il pragmatismo politico necessario a governare. Non un’imitazione della Merkel, ma una Merkel italiana, più giovane, più comunicativa, più radicata nella cultura cattolica della destra Dc che in quella tecnocratica del centrodestra europeo. La strategia è chiara: intercettare i voti delle ali più estreme, ma costruire la forza di governo sul consenso centrista, moderato e cattolico. Un percorso che non riguarda solo la premier. Anche nel centrosinistra, infatti, prende corpo la consapevolezza che la sfida non si vince con il radicalismo. Meloni non è la sola ad aver capito che il consenso si potrà conquistare anche dalle ali estreme ma poi si mantiene, si consolida e si rafforza solo stando al centro.

Anche i leader del Pd che fu – Paolo Gentiloni, Dario Franceschini, Luigi Zanda per citarne alcuni – hanno capito che il lavoro da fare, parallelamente a quello di Giorgia Meloni, consiste nel ricostruire una gamba moderata del centrosinistra. Il Pd radicale di Elly Schlein non si recupera. E allora si chiama Ernesto Maria Ruffini, si lavora dietro le quinte a uno scenario che arricchisca l’offerta politica riformista. A queste operazioni potrebbe non essere del tutto estraneo quel Sergio Mattarella che fu instancabile dirigente della Dc siciliana prima e nazionale poi. Tutto, perfino il tono di prudente distanza rispetto a Israele e Medio Oriente assunto dal Presidente della Repubblica, sembra indicare che a tirare le fila dei popolari di sinistra sia qualcuno molto vicino al Quirinale.

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Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.