In una Italia dai giorni neri, bersagliata da violenti nubifragi senza tregua, con una sfilza di esondazioni, strade franate e due ponti crollati, per la 119esima volta dal 1975, Milano ieri si è svegliata ancora in balìa del suo fiume più torrentizio. È esondato il Seveso con il suo classico devastante corredo di danni da emergenze – blackout elettrici, piazze e strade e sottopassi allagati come cantine e negozi, auto e motorini travolti – per le sue acque “esplose” dai tombini formando laghi con vista dalle torri-grattacielo del Bosco Verticale. Già, perché el Seves fiùmm de Milan allaga dal basso, scorrendo intubato sotto la città per circa 10 km in sezioni insufficienti per le sue portate di piena che sarebbero gestibili se solo fossero gestite con opere idrauliche in grado di contenerle fuori dalla città. La débâcle della sicurezza dalle alluvioni a Milano è plateale, e non per carenza di fondi ma di cantieri aperti per realizzare quelle vasche di laminazione dove far scaricare la furia delle piene di un fiume che non aspetta i tempi interminabili delle soluzioni. Ad oggi, solo la vasca del Parco Nord di Milano al confine con Bresso è stata realizzata, con lavori partiti il 20 luglio 2020 in attesa del collaudo. Le altre, che devono contenere il Seveso sulla pianura a nord di Milano, segnano ritardi cronici. Una delle due vasche di Senago sarà pronta tra 6 mesi, quella di Lentate forse tra un anno, come quelle delle zone golenali a Cantù, e della vasca di Paderno-Varedo c’è il solo progetto e non hanno nemmeno assegnato l’appalto. Un ritardo medio dai due ai quattro anni sul cronoprogramma del 2014, nonostante soldi già stanziati da allora, e nonostante la certezza che solo un sistema di vasche di laminazione può ridurre o portare in alcuni casi a zero i rischi di esondazioni. Ma tant’è, il Seveso è oggi un brutto caso nazionale di autolesionismo nella regione più industrializzata e in grado di fronteggiare qualsiasi opera.
Resta imbrigliato nei conflitti aperti e non gestiti tra Milano e i comuni dell’hinterland, tra i comuni e la Regione, tra un comitatismo Nimby e tutte le istituzioni. In balìa di contenziosi infiniti, in gran parte incomprensibili viste le tante modifiche ai progetti inziali, le opere accessorie concesse e le varianti che hanno migliorato anche gli inserimenti ambientali. Pendono ancora ricorsi al Tribunale superiore delle acque pubbliche finiti in Cassazione per la verifica della loro legittimità, e nella più assurda battaglia di carte bollate tutti escono sconfitti visto l’oggetto del contendere che non è una cementificazione distruttiva ma la realizzazione di laghi artificiali per la protezione dei cittadini e dei beni pubblici e privati, dove far sfogare le alluvioni di un fiume considerato e utilizzato come una fogna a cielo aperto, deviato, strozzato e intubato. El fiùmm de Milan scorre infatti per 52 km nelle province di Como, Monza e Brianza e Milano. Attraversava fino alla prima metà del Novecento libero e selvaggio zone di campagna, partendo dalle sue sorgenti sul Monte Sasso, a Cavallasca, a quota 490 m, a meno di 5 km in linea d’aria da Como. Da lì attraversa scenari suggestivi, e nulla faceva immaginare la sua successiva funzione di collettore di fogne industriali e civili, e poi la sua scomparsa per una decina di chilometri sotto via Ornato a Milano, infilato in una galleria del tutto insufficiente a trasportarlo in caso di piena.
E la sua nuova “foce” alla confluenza nel Naviglio della Martesana, anch’essa innaturale e intubata sotto il manto stradale di via Melchiorre Gioia. Il Seveso ha buone ragioni di lesa naturalità visto anche che negli anni Ottanta fu dichiarato, dopo una campagna di analisi biochimiche, un “fiume morto”. Da allora, lo stato ecologico segnalato dall’ARPA lo certifica a malapena sufficiente fino a Vertemate, scarso fino a Lentate, cattivo dopo Lentate e sotto Milano. Lo deviano dai tempi dei Romani che, con una delle loro imprese colossali, portarono parte del fiume che scorreva lungo il perimetro orientale del castrum di Mediolanum, verso il torrente Nirone che transitava poco più a ovest per formare il primo anello d’acqua difensivo. Al tratto occidentale artificiale del Nirone diedero il nome di Piccolo Sevese, e alla restante parte dell’anello quello di Grande Sevese. Quei due rami convergevano nel Canale Vetra, e sono i canali più antichi di Milano. Oggi attraversa aree urbane e industriali sempre più ristretto e sagomato, con tratti tra case e fabbriche che gli stanno addosso al punto che spesso l’alveo coincide con le mura. L’intombamento a Milano è iniziato con l’espansione di fine Ottocento, ed è proseguito dal 1930 e, dopo il Piano Regolatore Generale del 1953, si è esteso a Niguarda e lungo via Ornato fino al confine comunale con Bresso, con la sua nuova foce. E se in caso di piena un tempo divagava tra campagne, oggi può arrivare ingrossato dalla Brianza e fuoriuscire tranquillamente nella zona nord, a Niguarda, Ca’ Granda, Comasina, viale Sarca, viale Zara e il nuovo quartiere dell’Isola, la Venezia dei milanesi. Con le sue acque è straripato negli ultimi 140 anni in media 2,6 volte l’anno dentro Milano. E sono stati eventi, ancorché a volte contenuti, capaci di paralizzare parte della metropoli, aumentando man mano le sue portate con la confluenza degli scoli fognari di Paderno Dugnano, Cusano Milanino, Cormano, Bresso e Cinisello Balsamo. Cosicché, sotto i nubifragi ormai diventa un “bacino colatore”.
Il 2014 fu un annus horribilis, con 9 esondazioni di fila, e la sola ultima di luglio lasciò danni per 50 milioni di euro. Nell’anno della Expo Universale, da una quarantina di anni il fiume attendeva l’avvio delle opere del “Progetto Seveso”, penosamente bloccate da veti istituzionali, proteste locali e per mancanza di fondi. Si fondava sul contenimento delle acque di piena in aree di laminazione a monte delle città, sostenuto da Milano e dalla Regione, ma contestato dagli altri comuni dell’hinterland come Senago che esponeva sul municipio lo striscione “No Vasche”, e da comitati di cittadini contro le casse di espansione che sarebbero state riempite con la sua acqua fetida. Anche l’assenza di reti fognarie e depuratori lungo l’asta fluviale alimentava il comitatismo Nimby dei “No”. Il Progetto Seveso allora era valutato in 3 anni di lavori e 145 milioni d’investimento, meno dei danni complessivi delle alluvioni del 2014. Quando da Palazzo Chigi, con la struttura di missione Italiasicura, insieme a Mauro Grassi, iniziammo ad occuparcene, il progetto non solo non era finanziato ma nemmeno rientrava tra i 1.700 milioni stanziati per le opere previste per l’Expo Universale, il grande successo italiano dall’1 maggio al 31 ottobre 2015. Quei fondi arrivarono però dall’unità di missione del Governo Italiasicura, con altri 20 milioni dal Comune di Milano impegnati dall’allora sindaco Giuliano Pisapia e dalla sua vice Ada Lucia De Cesaris che con la sua determinazione sbloccò anche il piano depuratori. E anche con l’assessore regionale Viviana Beccalossi e il suo dirigente Dario Fossati, quelle risorse iniziarono a diventare progetti esecutivi che la Regione affidò all’Autorità Interregionale del Po.
Si trattava di un sistema integrato di laminazione lungo l’asse del Seveso con la manutenzione dell’alveo e finalmente reti fognarie e depuratori. Era basato sulla creazione di 4 vasche di raccolta delle acque tra Lentate sul Seveso, Senago, Paderno-Varedo e Milano, in grado di frenare oltre 4 milioni di metri cubi d’acqua di piena, accompagnato dalla rinaturalizzazione ricreando golene tra Vertemate, Cantù, Carimate e Lentate. Aprimmo un dialogo con chi contestava le opere, accogliemmo le loro richieste di far precedere i lavori dai cantieri per la depurazione in diversi comuni, realizzati con un bel lavoro di squadra tra Milano, gli altri comuni e la Regione con un investimento aggiuntivo di 90 milioni di euro e, in un anno fu eliminata la vergogna di acque reflue non depurate, il motivo principale della non accettazione del sistema di difesa idraulica. A quel punto, il Progetto Seveso diventò persino un modello integrato esportabile altrove poiché affrontava sia il superamento del rischio idraulico che dell’inquinamento. Iniziarono quindi le progettazioni e le verifiche per le vasche di laminazione tra Milano Parco Nord, Senago, Lentate, Varedo e Vertemate, Cantù, Minoprio e Carimate, per il potenziamento dello scolmatore nord-ovest e il ripristino della funzionalità del sottoattraversamento del fiume nel sottosuolo di Milano, con la manutenzione straordinaria del Cavo Redefossi. Inserimmo nel piano delle opere anche la riqualificazione ambientale delle sponde attraverso il “Contratto di fiume”.
Chiusa Italiasicura, però, le opere sono andate molto a rilento, con stop and go tra polemiche e incredibili conflitti tra istituzioni che francamente fanno vergognare e dovevano e potevano essere risolti soprattutto dalla Regione, che per legge dello Stato è titolare e responsabile delle opere di contrasto al rischio idrogeologico. Ma il nuovo allagamento di Milano riporta a galla anche il lato dimenticato della città, sotto la quale scorre uno dei più estesi grovigli di reticoli di corsi Ambiente d’acqua naturali e artificiali del Pianeta. Canali e tunnel si sviluppano complessivamente per circa 370 chilometri, quasi tutti in alvei intombati. Di questi, per 200 chilometri scorrono reti principali e secondarie di fiumi e torrenti e navigli – Seveso, Lambro, Olona, i navigli Grande, Pavese e della Martesana, il torrente Merlata e una dozzina di rogge e fontanili -, e per 170 km scorrono flussi d’acqua minori alimentati soprattutto dalla ricca falda acquifera. È un complesso sistema idrografico che, quando era in gran parte ancora a cielo aperto, lasciava senza fiato anche il gran viaggiatore Stendhal che nel soggiorno milanese scrisse ammirato: “Ovunque si scorgono i canali d’acqua corrente che gli danno fertilità: si costeggia il canale navigabile per mezzo del quale si può andare in battello da Milano a Venezia o in America!”. Ma oggi, nelle stanze di chi governa, dovrebbe risuonare il monito di Leonardo, che fu anche Architecto et Ingegnero Generale di Milano: “Se ti addiviene di trattare delle acque consulta prima l’esperienza e poi la ragione”. Noi spesso né l’una né l’altra.
