Torino è una città che nasconde e assapora con discrezione le molte schizofrenie dell’esistenza: palazzi austeri, vicoli che gridano in silenzio amori passeggeri. In una stanza di un piccolo albergo c’è un uomo stanco. È un 27 agosto rovente. L’amore è lontano, non basta l’astuzia, non serve il talento; nemmeno i tanti bicchieri di vino riescono a colmare il vuoto. La candela brucia forte, illumina in modo crudele danze lontane: passi incerti, movimenti spezzati. La stanza è quella dell’Hotel Roma, numero 346, affacciata su una piazza Carlo Felice drammaticamente deserta. Non è la stanza dell’Hotel Delfino di Dance, Dance, Dance: qui la musica è finita e i piedi si sono fermati. Sul tavolo, cenere. Una lettera a metà divorata dal fuoco. Una dose letale di sonniferi. Poche parole, secche come un addio: «Non fate troppi pettegolezzi».
L’ultima tragica notte di Cesare Pavese: solitudine, depressione e mal d’amore
Nato nel 1908 in una piccola cittadina delle Langhe, aveva conosciuto presto la solitudine. La morte prematura del padre e un carattere votato all’introspezione avrebbero plasmato tutta la sua opera. Grande amante della letteratura americana, idolatrava Faulkner ed Hemingway, dai quali aveva appreso la ricerca di una prosa semplice, limpida, essenziale. Ebbe due grandi amori. Il primo, Bianca Garufi, giovane insegnante conosciuta durante gli anni universitari a Torino. Alla sua casa si deve l’ambientazione di uno dei romanzi più noti di Pavese, La casa in collina, storia di Corrado, professore torinese che durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale si rifugia tra le colline, accudito da due donne, Elvira e la madre. Un racconto dal ritmo misurato, dove lingua e dialetto si alternano, mentre la guerra resta sullo sfondo: amori passati, presunte paternità, l’illusione di una giovinezza ritrovata, l’angoscia per ciò che verrà.
Il secondo grande amore fu per l’attrice americana Constance Dowling, incontrata durante la guerra, quando Pavese lavorava come traduttore per l’esercito statunitense. Una passione travolgente e tormentata, distrutta dalle distanze culturali e dall’instabilità emotiva dello scrittore. La fine di quel rapporto segnerà a fondo i suoi ultimi anni: a lei dedicherà l’ultimo romanzo, La luna e i falò. Aveva solo quarantuno anni. Nella stanza rimase un davanzale aperto, pochi rumori dalla piazza e la certezza che, fuori, la vita avrebbe continuato a scorrere. Indifferente. Veloce.
