Se si prova a leggere, o rileggere – meglio ancora -, tutti e nove i romanzi di Cesare Pavese o almeno tre o quattro di questi, alla fine viene spontaneo chiedersi se si sia compresa appieno la dimensione enorme di questo scrittore. È che gli stereotipi, le frasi fatte, il peso delle sua vicenda umana hanno oscurato la sua profondità letteraria, persino filosofica: e non che siano mancati gli studi pavesiani che peraltro si rinnovano continuamente, o che sia venuto meno il successo dei suoi capolavori; e tuttavia ha prevalso l’idea di uno scrittore “giovanile”, accucciato nel mito delle Langhe e appena intravisto nella nebbia di Torino, perso nelle varie educazioni sentimentali e più o meno politiche, nel disastro dei sentimenti soffocati dal turbamento, e dalla solitudine come condizione inevitabile.

Tutto vero. Ma come sovente accade ai grandi scrittori, è prevalso il “pavesismo” su Pavese, come il “proustismo” su Proust, sicché l’ordito più intimo della sua scrittura è rimasto piuttosto sullo sfondo, come un orpello formale e non, come invece è, un tesoro inestimabile. È colpa anche della critica soprattutto di sinistra aver contemporaneamente innalzato Pavese sull’altare dell’”impegno” e sottovalutato in relazione alla sua arte, facendone un’icona a suo modo “maledetta” ma tralasciando le ragioni di una letteratura tutto sommato unica – eppure così esemplare.

Bisognerebbe dunque rileggere Pavese sforzandosi di isolare, per così dire, la sua scrittura dal famoso contesto e dalla ancora più famosa biografia, inseguendo tra le pagine dei suoi romanzi i fantasmi di trame che non sono vere trame, cercando di cogliere quello che viene detto e se possibile quello che non viene detto ma lasciato alla sensibilità del lettore, giacché tutto è abbozzato in Pavese: non come i quadri degli Impressionisti ma come negli schizzi preparatori, magari a matita, dei grandi capolavori.

Ci sono, disseminate qua e là, frasi ricche di sensualità o di nostalgia – due sentimenti che si assomigliano – che appena lette ci fanno dire: è Pavese. Inconfondibili. La frase di Pavese sempre evoca qualcosa, spesso di indefinibile, il che è proprio dei grandi scrittori, il suo dilungarsi brevemente su una cosa si spezza in un periodo secco in un ritmo che è difficile da seguire: è la modernità degli americani che lui conosceva sin troppo bene: “Paesi tuoi’, il suo primo romanzo, è il nostro “Uomini e topi”.

Per tutto questo e molto altro ancora – la fuggevolezza dei personaggi, per esempionon è per niente facile trasporre Pavese sullo schermo. Non è Moravia, sfruttatissimo al cinema. Lo fece Michelangelo Antonioni negli anni Cinquanta con “Le amiche” tratto da “Tra donne sole”: un buon film ma non molto di più. Ci fu “Dalla nube alla Resistenza” (1979) del regista franco-tedesco Jean-Marie Straub e di sua moglie Danièle Huillet che era un vero tributo cinematografico all’opera letteraria dello scrittore piemontese. C’è un film per la tv di Vittorio Cottafavi, “Il diavolo sulle colline”.

Ma, con rispetto per tutti questi, forse con “La bella estate” di Laura Luchetti possiamo “sentire” meglio di sempre Pavese con gli occhi, avvertire il suo ritmo-non ritmo, l’innocenza dei sentimenti, persino una Torino indovinata tra viali e caffè. Impresa quasi impossibile quella di trarre un film da un romanzo come “La bella estate” (1949), storia di Ginia, sartina venuta dalla campagna con il suo carico di vita e ignoranza del mondo, e del suo impatto proprio col mondo borghese e il suo carico di sogni sbagliati fino alla conclusione della scelta finale per Amelia, bellissima modella, esito modernissimo di un groviglio esistenziale e amoroso.

Il film riesce, è esteticamente bello, ottime le due protagoniste, specie Yile Yara Vianello (Ginia) e Deva Cassel (Amelia) al suo debutto. Il lavoro di Laura Luchetti ci ridà un po’ di quella grande letteratura e invoglia a leggere e rileggere Pavese affidandosi a lui, lasciando perdere tutto il resto: solamente Pavese, con te che lo leggi.