Nuovo futuro per Napoli, ma il Comune non allontani i privati

In tempo di campagna elettorale, si sa, i candidati fanno a gara a proporre progetti mirabolanti. Figuriamoci in un momento storico in cui l’Italia si appresta a incassare dall’Unione europea una quantità di miliardi mai vista prima. Succede anche a Napoli, dove gli aspiranti sindaci si affannano a indicare nuove possibili destinazioni per l’Albergo dei poveri, a ipotizzare il trasferimento del carcere minorile da Nisida, a promettere la rigenerazione dell’area orientale della città. Intendiamoci, è un bene che di simili iniziative strategiche si discuta. La sensazione, però, è che gli amministratori pubblici, in carica o aspiranti, attendano sempre e comunque l’intervento salvifico dello Stato. Con la conseguenza che la sostenibilità dei progetti e il contributo che i privati possono dare alla riqualificazione degli spazi urbani sono sistematicamente espunti dal dibattito.

Eppure i casi di positivo coinvolgimento delle imprese nella rigenerazione urbana non mancano. In Giappone, per esempio, si è affermato un modello in base al quale il privato offre propri suoli al pubblico, garantendone la gestione e la cura in cambio di incentivi. Ed è proprio attraverso questa partnership pubblico-privato che molti sobborghi di Tokyo si sono trasformati in centri moderni e all’avanguardia. Senza andare troppo lontano, però, vanno ricordate due proposte formulate a Napoli. La prima è quella dell’Insula, lanciata nel 2012 dall’imprenditore Alfredo Romeo (editore di questo giornale), che puntava a rigenerare l’area a ridosso del porto e alle spalle del teatro Mercadante attraverso garage, isole pedonali, restyling di strade e pubblica illuminazione, alberi e panchine, e a fare in modo che quella zona vivesse del proprio gettito tributario, gestendo autonomamente servizi come sicurezza, raccolta dei rifiuti e manutenzione stradale.

Prima ancora, negli anni Ottanta, era stato l’imprenditore Enzo Giustino a ipotizzare nuove modalità di amministrazione del centro storico di Napoli, scatenando l’immancabile ridda di polemiche e di sospetti.
Insomma, le forme virtuose di partnership pubblico-privato esistono. Su certe proposte e su certe tematiche, però, è stato fatto calare il velo dell’oblìo. Napoli, d’altra parte, è reduce da dieci anni in cui i privati sono stati demonizzati e sistematicamente additati come approfittatori assetati di denaro, mentre il pubblico, a cominciare proprio dal Comune, non ha offerto performance migliori, preferendo disamministrare il territorio o amministrarlo senza un briciolo di raziocinio e di prospettiva. Eppure i privati possono e devono giocare un ruolo centrale, anzi strategico, nella rigenerazione urbana di Napoli e nella gestione sostenibile del territorio, grazie alle competenze e ai capitali di cui dispongono. Sul punto, però, manca qualsiasi riflessione da parte dei candidati sindaci che, con qualche eccezione, si limitano ad annunciare un’inversione di rotta rispetto all’era de Magistris, quando il privato è stato considerato alla stregua di Belzebù.

Perciò è ora che le forze politiche si interroghino su questo tema e lavorino a un nuovo patto tra pubblico e privato per trasformare Napoli in una città più moderna, sostenibile e anche inclusiva. Bisogna accantonare l’idea per la quale tocca allo Stato innescare lo sviluppo e fare in modo che i privati possano collaborare col Comune e gli altri enti pubblici nella gestione di territorio e servizi. Perché dalle crisi si esce, ma a condizione che lo si faccia tutti insieme.