Nelle ultime settimane abbiamo assistito, con crescente inquietudine, al moltiplicarsi di mozioni di boicottaggio nei confronti di università israeliane. I casi più recenti sono quelli dell’Università di Pisa, dove il rettore Riccardo Zucchi ha annunciato la fine della collaborazione con la Reichman University e la Hebrew University; dell’Università di Firenze, dove cinque dipartimenti hanno deciso di aderire a quella che è stata definita una forma di “boicottaggio accademico”; e, più recentemente, della Scuola Normale Superiore di Pisa che, pur non avendo in essere accordi con enti di ricerca o istituzioni universitarie israeliane, ha visto il Senato accademico stabilire che l’ateneo “si impegna a valutare con la massima attenzione ogni accordo istituzionale e collaborazione scientifica che possa riguardare lo sviluppo di tecnologie utilizzabili per scopi militari” o che “risultino implicati, direttamente o indirettamente, nelle violenze e nell’occupazione a danno delle popolazioni civili di Gaza e della Cisgiordania”.

Queste iniziative, mascherate da attivismo politico, troppo spesso si traducono in pratiche di esclusione identitaria e discriminazione. E quando l’università, lo spazio che per definizione dovrebbe garantire libertà di pensiero, confronto critico e cooperazione internazionale, si trasforma in luogo di divisione e delegittimazione, non possiamo rimanere in silenzio. Per questo, come Unione giovani ebrei d’Italia abbiamo deciso di aderire con convinzione all’appello contro il boicottaggio delle università israeliane e contro l’antisemitismo negli atenei italiani. Tutto il Consiglio Ugei ha firmato questo appello, e invitiamo chiunque abbia a cuore il valore della libertà accademica e della dignità individuale a fare lo stesso.

In una democrazia, il dissenso è un diritto sacrosanto. Ma esiste una linea sottile, che in troppi contesti è stata ormai oltrepassata, tra critica legittima e discriminazione. Quando si arriva a boicottare un’università per la sua appartenenza a un determinato Stato, allora si entra nella pericolosa logica della colpa collettiva. E a pagarne il prezzo non sono solo le istituzioni, ma le persone: studenti, ricercatori e docenti che vengono etichettati, emarginati, esposti alla gogna pubblica. Troppo spesso, se ebrei o israeliani, vengono trattati come bersagli politici, a prescindere dalle loro idee.

Tutto questo lo abbiamo già visto, troppe volte. Lo abbiamo letto nei rapporti sull’antisemitismo, lo abbiamo ascoltato nelle testimonianze di studenti che si sono sentiti esclusi, emarginati, censurati nei loro stessi atenei. E lo abbiamo vissuto in prima persona al Campus Einaudi di Torino, durante un evento dedicato al diritto allo studio e all’antisemitismo, dove siamo stati aggrediti fisicamente e verbalmente. Chiunque abbia a cuore il destino delle nostre università e del nostro Paese deve porsi oggi una domanda essenziale: vogliamo davvero che i luoghi della conoscenza diventino spazi di esclusione ideologica e che la protesta prenda il volto della discriminazione? La risposta deve essere un “no” fermo e responsabile. Il dialogo non si costruisce mettendo a tacere l’altro, ma ascoltando. L’educazione non è militanza selettiva, ma apertura al confronto. E la libertà accademica non è un privilegio, ma un principio irrinunciabile che va difeso con forza.

La pace, anche in Medio Oriente, non si costruisce boicottando le università, ma mettendo in contatto studenti, idee, progetti, culture. E contrastare l’antisemitismo oggi significa anche avere il coraggio di riconoscerlo quando si presenta con nuovi volti e nuove parole. L’università italiana deve dimostrare di essere all’altezza della sua missione civile e costituzionale. Come giovani ebrei italiani, siamo pronti a fare la nostra parte.

Luca Spizzichino

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