Cultura
Pandemia e crisi della letteratura
Essere più brutali dei numeri usando le parole è impossibile, così come fare analogie tra la pandemia e la crisi del mondo della letteratura è un gioco troppo onesto e poco si addice ai libri. Tuttavia, la torre di Babele è caduta, senza alcun fracasso, tipico di un’idea crollata, l’idea della letteratura.
Eccoli i dati dell’Osservatorio dell’Associazione Italiana Editori ai tempi del Coronavirus: 18.600 i titoli non pubblicati, 2500 quelli non tradotti, per un totale di 40milioni di libri persi. Su questa prima carrellata di numeri in molti hanno già posto l’accento sul fatto che la lettura non sia una pratica essenziale per gli italiani e, verrebbe da dire, neanche di seconda necessità. Non lo era da molto tempo e non serviva rompersi la gamba un’altra volta per capire quanto siano fragili gli arti dell’editoria. Ecco, quello che forse si può imparare è abbandonare l’idea romantica del libro come oggetto a sé stante: comunque molti di quei milioni di libri avrebbero avuto breve durata sugli scaffali e sarebbero finiti al macero al termine dei pochi mesi del ciclo di vita del libro.
Chiamiamolo relativismo della letteratura. È il 1961, quando Nanni Balestrini utilizza un calcolatore elettronico per riprodurre Tristano, un romanzo, un testo potenzialmente illimitato e sempre diverso dal precedente. Insomma, la violazione dell’anima del libro, oggetto monodose e replicabile, in quanto ristampabile. Già i futuristi ci avevano pensato nel 1933 con L’anguria lirica, il leggendario libro in cento copie litografate su fogli di latta, del ligure Tullio d’Albisola.
Tutti oggetti destinati al presente. Il nostro presente raccontato dagli instant book di Roberto Burioni e Paolo Giordano, da faccioni di autori in streaming sui social, tristi riletture del Decamerone in mancanza di altro e un fugace dibattito a proposito della nuova legge sull’editoria pubblicata in Gazzetta il giorno in cui viene annunciato che il 61% degli editori farà o ha già fatto ricorso alla cassa integrazione. Lì termina la disputa tra alcuni maghi del marketing editoriale anni ‘90 (e il modello artefatto del lettore forte che oramai è chiaro che non sia mai esistito), e tra chi, fino a un mese fa, accusava Amazon di essere il principale responsabile della crisi dell’editoria. A resistere è l’anello debole dell’economia, ma forte nello spirito, delle piccole librerie con le loro consegne a domicilio e i libri lasciati dal fruttivendolo durante i giorni del lockdown. Del resto, la storia insegna che, nei momenti cruciali, i modelli economici cambiano, a differenza dell’umanità che rimane e attesta la letteratura come fatto indispensabile.
Nel discorso sulla letteratura sembra che proprio il tempo sia stato dimenticato. La diversa percezione interiore del tempo da parte degli individui, così simile a quella delle scene raccontate in letteratura. Il libro che, oltre alle pagine, è fatto di anni passati a scrivere, o la sola settimana impiegata da Jack Kerouac per On the Road. Perché la letteratura ha quell’attitudine di arrivare nel futuro ed essere attutale tanto più ha raccontato con forza il proprio presente, quello scandito dai battiti delle dita sulla tastiera o dai mesi passati ad editare un manoscritto.
Insomma, riprendersi l’essenza sfuggente della scrittura, da parte degli editori, degli scrittori, dei festival, come unico antidoto alla destinazione equanime del tempo imposta dal mercato al mercato editoriale e viceversa. Un economista direbbe che quando si dimentica la missione, si perde il business. Per quelli che provano fare i conti con le parole, tutto ciò che sfugge del libro è quello che del libro, della letteratura, ne determina l’imprescindibilità.
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